Mario Del Pero

Obama

Non
è stato un discorso entusiasmante quello con cui Obama ha chiuso la convention
e non poteva essere altrimenti. Niente dotti sermoni, niente sofisticate
riflessioni sulla parabola storica degli Stati Uniti e sulla questione
razziale, ma tanti riferimenti all’America che suda, lotta, fatica ed è stata
regolarmente maltrattata e punita in questi ultimi otto anni. Se Obama abbia
raggiunto i suoi obiettivi – su tutti quello di riunificare il partito e di
convincere i clintoniani più intransigenti a votare per lui – lo scopriremo nei
prossimi giorni. Il compito di Obama non era semplice: compattare l’elettorato
democratico, dare più sostanza e meno retorica al suo messaggio politico, fare
del proprio meglio per evitare che questa elezione si trasformi in un
referendum pro o contro Obama medesimo. Perché questa è la strategia adottata,
finora con qualche successo, dal nuovo, spregiudicato team di consiglieri di
McCain. Mettere Obama – le sue contraddizioni, i suoi inevitabili limiti, le
sue ambiguità – al centro della scena; fare del carattere e della biografia del
candidato democratico il tema principale della campagna elettorale; parlare
dell’elitismo simil-hollywoodiano di Obama per non dover discutere di economia
e politica internazionale. È una tattica che ha funzionato nel 2004 e che
rischia di funzionare ancora oggi come ci ricorda James Vega (cfr. qui). Per
conquistare la nomination Obama ha posto la sua biografia al centro della
scena, presentandola come la biografia potenziale della nazione che si candida
a guidare. È sullo stato di quella nazione, e non più sulla storia di Obama,
che la discussione dovrà concentrarsi nelle prossime settimane se i democratici
vogliono riconquistare la presidenza.