Mario Del Pero

Un’America che cambia

L’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti rappresenta uno di quei rari eventi destinati a rappresentare uno spartiacque, nelle percezioni pubbliche così come nelle analisi storiche e nelle periodizzazioni conseguenti. Che si tratti di elezioni epocali lo si dice, immancabilmente, ogni quattro anni. Lo si fa con l’esagerata enfasi retorica che sempre accompagna la scelta di un nuovo presidente negli Usa. Ma lo si fa a ragione, visto l’importanza delle elezioni presidenziali statunitensi per il mondo intero.
Eppure è difficile non considerare la vittoria di Barack Obama come un momento speciale, diverso, e unico, che segna una svolta fondamentale nella storia degli Stati Uniti e del mondo. Il lungo percorso che ha portato alle elezioni e il voto di ieri mostrano un’America che cambia, si rinnova e si trasforma. E che lo fa, e lo riesce a fare, anche grazie agli impulsi e agli stimoli offerti dalla stessa, interminabile campagna elettorale. È un cambiamento dai volti molteplici – culturali, demografici, sociali – le cui ripercussioni politiche ed elettorali sono forti e per certi aspetti traumatiche, tanto da costringere Democratici e Repubblicani a rimettere in discussione la propria natura e il proprio progetto politico. Agiscono, in questa trasformazione, rivolgimenti strutturali profondi, di lungo periodo, che l’11 settembre e quel che ne è seguito hanno solo contenuto e temporaneamente anestetizzato. Gli Stati Uniti sono un paese destinato a farsi sempre più complesso, diverso e multiforme. Ogni nuovo censimento ci rivela significative alterazioni negli equilibri demografici, nazionali e, ancor più, locali. Questa ricca diversità – che è “etnica”, linguistica e religiosa – ha trovato la sua incarnazione quintessenziale nella figura stessa di Obama: espressione emblematica, nel suo tortuoso percorso biografico, del pluralismo statunitense e quindi sintesi simbolica ideale delle tante Americhe che fanno oggi l’America. Da parte repubblicana vi è su questo un ritardo che non è però immobilismo. McCain rappresentava quanto di più non-partitico e indipendente i repubblicani potessero offrire. È stato comunque affiancato da una giovane governatrice donna; all’interno del fronte repubblicano cominciano ad emergere figure dalla biografia assolutamente eccentrica per gli standard del mondo conservatore, su tutte il giovane e popolare governatore indiano-americano della Louisiana, Bobby Jindal.
Un’America diversa e plurale è anche un’America che, soprattutto grazie all’immigrazione, rimane giovane. L’elemento demografico si è intrecciato in queste elezioni con quello generazionale nel modificare, e in taluni casi ridisegnare, la mappa elettorale. Una parte del sud (Virginia e North Carolina in particolare) tradizionalmente conservatore, e da quattro decenni repubblicano, cambia pelle grazie all’alleanza tra afro-americani e lavoratori qualificati, tendenzialmente giovani, con istruzione e redditi medio-alti, che operano nei servizi e in vari settori high tech. Un processo simile avviene in pezzi importanti dell’Ovest, come ad esempio il Colorado, dove crescente è il peso – demografico e politico – degli immigrati ispanici. La cartina elettorale che regolarmente ci viene mostrata, e che contrappone le due Americhe – quella delle coste, blu e democratica, e quella profonda, rossa e repubblicana – ha sempre costituito un’inutile e mistificante semplificazione; dentro quelle due Americhe ne stanno infatti molte altre: urbane e rurali, suburbane ed exurbane, industriali e post-industriali. Ma ora anche quella carta può essere finalmente messa in soffitta.
Le tante Americhe giovani si mostrano peraltro impermeabili a elementi qualificanti la cultura conservatrice che è stata così forte nell’ultimo trentennio. Smentendo stereotipi consolidati sull’America bigotta e ultra-religiosa, queste Americhe non assumono posizioni di pregiudiziale opposizione alle unioni omosessuali e manifestano un atteggiamento laico e liberal su temi eticamente sensibili. Più di tutto, riescono a far eleggere un presidente giovane, afro-americano, ma anche multi-etnico, come Obama. Qualcosa che sarebbe stato semplicemente inimmaginabile solo pochi anni fa.
Queste dinamiche profonde si sono a loro volta intrecciate con processi più contingenti. I gravi errori delle amministrazioni Bush e l’inefficienza del Congresso hanno generato una forte critica della politica e delle sue istituzioni. Oggi il tasso d’impopolarità del presidente supera il 70%, mentre quello del Congresso, a maggioranza democratica, sfiora l’80%. La reazione – e questo è un dato particolarmente significativo – non è però di chiusura e di rigetto nei confronti della politica, dei suoi riti e delle sue pratiche. Al contrario, il vento dell’antipolitica, così forte negli Usa degli ultimi anni, stimola partecipazione, coinvolgimento e mobilitazione. Ritempra la democrazia invece di acuirne le difficoltà. Ciò si riflette anche sulla politica estera, o quantomeno sull’immagine degli Usa nel mondo. Un’immagine che appariva danneggiata in modo irreparabile dall’arrogante unilateralismo di Bush e dei neoconservatori, e che invece torna a farsi forte: a esercitare quella capacità di fascinazione e di proiezione globale su cui ha storicamente poggiato l’egemonia statunitense.
Le difficoltà economiche e finanziarie, infine, contribuiscono alla più generale trasformazione culturale cui stiamo assistendo e che tanto ha inciso sull’esito del voto. Slogan consolidati vengono apertamente sfidati; si torna con forza a parlare di equità sociale; dopo molti anni, un candidato rivendica, sia pure con molta cautela, la necessità d’incrementare la pressione fiscale sui redditi più alti.
È un’America, quella emersa dal volto, dalle mille contraddizioni e fragilità. Ma è anche un’America che mostra una volta ancora il suo dinamismo, la sua capacità d’adattamento, la sua freschezza democratica. È un’America, infine, che il resto del mondo spesso rigetta o banalizza, ma che poi finisce per osservare – come è stato con queste elezioni – con sorpresa, curiosità, confusione e, anche, non poca ammirazione.

(Il Mattino, 5 novembre 2008)

1 Commento

  1. Taty

    ma poi si rischia che moarimo tutti se si scioglie, dato che sotto quei ghiacci si nasconde la progenie dei Vampiri. Scusa, ho appena visto un film sui vampiri.

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