Mario Del Pero

La forza e la debolezza di Obama

Il voto del Senato che ha liberato la seconda tranche del
piano di salvataggio delle istituzioni finanziarie e il piano di stimolo
economico presentato la scorsa settimana dalla leadership democratica alla
Camera dimostrano la forza politica del nuovo Presidente. In entrambi i casi
Obama ha ottenuto quanto chiedeva, spendendosi in prima persona – nel caso del
voto del Senato – per convincere una serie di senatori del partito democratico
a votare a favore del nuovo stanziamento e in contraddizione con la posizione
che essi avevano assunto durante la campagna elettorale.
Obama entra quindi in carica come Presidente forte. Ha tassi
di consenso e popolarità che Bush e Clinton neanche avvicinavano. È forte di un
voto popolare senza precedenti nelle sue dimensioni assolute. Si trova di
fronte un mondo in larga misura ipnotizzato dalla sua figura e dalla prova di
forza che la democrazia statunitense ha saputo dare nel 2008. L’opposizione
repubblicana appare allo sbando, lacerata da divisioni interne e da una
frattura, quella fra radicali e moderati, tra le Sarah Palin e le Susan
Collins, che le elezioni hanno ulteriormente esasperato. I democratici
costituiscono anch’essi un movimento composito ed eterogeneo, come si è ben
visto nelle diverse posizioni assunte rispetto al piano presentato alla Camera:
insufficientemente espansivo per i liberal; troppo azzardato e fiscalmente
irresponsabile per i conservatori; eccessivo nei tagli alle tasse per entrambi.
Non possono però opporsi al loro presidente e sono chiamati a una prova di
disciplina dopo i tanti errori degli ultimi anni. A questa forza politica si aggiunge anche
quella istituzionale: un Congresso impopolare e screditato è chiamato a
interagire e dialogare con una Presidenza che ha riacquisito una credibilità a
lungo mancata. Questa asimmetria peserà nei mesi a venire e faciliterà l’azione
dell’Esecutivo.
Per quanto forte, però, Obama sarà chiamato ad agire con
rapidità. Non sono solo le urgenze della crisi economica, e le sue tante
incognite, a imporlo. Vi sono anche ragioni politiche, per quanto esse siano
meno visibili nella luna di miele post-elettorale di cui sta beneficiando
Obama. A monte opera una condizione che tutti riconoscono, ma le cui
implicazioni saranno più chiare solo fra qualche mese: il gap, inevitabile, che
si verrà a determinare tra le aspettative suscitate dall’elezione di Obama e i
risultati effettivi che la nuova amministrazione riuscirà a realizzare. È
evidente che si tratta di aspettative eccessive e non realizzabili; così come è
evidente che queste aspettative sono tante, diverse e tra loro non
complementari. Lo abbiamo visto bene già in occasione della crisi di Gaza, che
ha rivelato una differenza – quella tra ciò che l’America chiede a Obama e ciò
che il mondo si aspetta dal nuovo Presidente – destinata a riaffiorare in
futuro.
Aspettative non soddisfatte, a destra come a sinistra,
ridurranno la disciplina che di cui stanno dando oggi prova i democratici. I
conservatori del sud, i cosiddetti blue
dog democrats
, osteggeranno con più forza l’alta spesa pubblica
dell’amministrazione; i liberal chiederanno misure più incisive su temi per
essi fondamentali, ambiente e istruzione su tutti. Il blocco forse più
ideologico che vi è oggi al Congresso, quello dei deputati conservatori
repubblicani, alzerà i toni della polemica contro Obama e l’amministrazione
all’avvicinarsi della scadenza di mid-term del 2010. Tutto ciò avverrà in un
contesto nel quale Obama sarà più vulnerabile e meno popolare di oggi. Sarà
fondamentale aver portato a casa dei risultati significativi per quella data. E
sarà allora che si vedrà la vera forza politica di Obama e la tenuta di una
popolarità, invero di una ipnotizzante fascinazione collettiva, che ha pochi
precedenti nella storia degli Stati Uniti.

(Europa, 20 gennaio 2009)