Mario Del Pero

Il corpo di un leader globale

È difficile non rimanere
colpiti da un Obama che si piega scherzosamente per la foto con la presidente
della provincia dell’Aquila, stringe la mano uno ad uno ai vigili del fuoco,
corre in ritardo verso il podio della foto di gruppo, applaudito e cercato
dagli altri capi di stato.
Che Obama sia un
comunicatore abile, dotto e sofisticato lo sappiamo oggi fin troppo bene.
Alcuni dei suoi discorsi degli ultimi due anni sono dei capolavori di retorica
politica. Ma col tempo il contenuto del suo messaggio è stato reso sempre più efficace
e incisivo dal medium del messaggio medesimo: dal corpo di Obama. Le movenze,
la postura e un body language asciutto,
ma sicuro e coinvolgente, hanno infatti ulteriormente rafforzato la forza
comunicativa del discorso obamiano.
Inizialmente non fu così. Il successo e l’ascesa al potere hanno
conferito quel di più – in termini di sicurezza e levità – che si rivela oggi
decisivo. Molti ricordano i primi dibattiti all’inizio delle interminabili primarie
democratiche, dove un Obama impacciato e fuori ruolo risultò spesso schiacciato
dalla preparazione della Clinton, dalla competenza di Biden, dalla freschezza
populista – a metà strada tra Big Jim e Bruce Springsteen – di John
Edwards. Il tempo e le vittorie
elettorali hanno cambiato questa situazione. Il corpo di Obama è progressivamente
diventato quello dell’America. O, meglio, delle Americhe e delle sue tante
incarnazioni ideali: quella che gioca spensierata con i figli; quella che anche
a 47 anni realizza canestri in sospensione da 7 metri (lasciando a bocca aperta
i soldati che osservano ammirati il loro futuro comandante in capo); quella che
passeggia dinoccolata, ondeggiando come Denzel Washington; quella che balla
splendidamente; quella, infine, che di fronte ai problemi e alle tragedie si
rimbocca le maniche e mostra tutta la sua sobria e rigorosa competenza.
Da quando la politica si è
fatta televisione, l’apparenza e, appunto, il corpo sono diventati cruciali.
Dopo Eisenhower e Truman, gli ultimi presidente pre-televisivi, non ci sono più
stati presidenti bassi o calvi negli Stati Uniti. L’America – che ha nel
presidente l’unica carica elettiva nazionale e che in esso quindi vede, e vuol
vedere, la propria rappresentazione ideale – si specchia nel corpo e nelle
movenze del proprio leader. Corpo e movenze che, nel caso di Obama, portano con
sé quella pluralità di Americhe racchiuse nella sua figura e nella sua improbabile
biografia. Ma corpo e movenze che fanno di Obama anche un potenziale leader globale,
come vediamo bene in queste giornate del G-8 abruzzese. E nella empatia che riesce a trasmettere,
nell’ammirazione che alimenta, nell’austerità che esprime, il corpo di questo
leader televisivo globale torna paradossalmente a sacralizzarsi: a essere
perfetto, idealizzabile e, quindi, quasi irraggiungibile.
È illusione, ci mancherebbe.
L’ultimo grande leader americano a proiettare un’immagine simile – a divenire
icona da t-shirt assieme a Marilyn e James Dean – fu John Kennedy. Simbolo di
una generazione nuova, che nelle rappresentazioni dell’epoca combinava
dinamismo, freschezza, competenza e rigore. E presidente invece inefficace,
incline al compromesso, piegato da malanni fisici dolorosissimi, che lo
rendevano quasi infermo.
La politica ha però bisogno
di miti, illusioni e corpi ideali per costruire quel consenso che le è necessario.
Non bastano, ovviamente; ma sono indispensabili. Anche su questo i successi di
Obama – effimeri o meno essi siano destinati a rivelarsi – sono oggi indubbi.

[Il Mattino, 10 luglio 2009]