Mario Del Pero

Una surge anche in Afghanistan

I
marines hanno lanciato oggi la maggior operazione militare di terra da quella
del 2004 a Fallujah, in Iraq. Il teatro è quello dell’Afghanistan
sud-occidentale: la regione del fiume Helmand, dove i talebani hanno progressivamente
consolidato la propria presenza promovendo azioni di guerriglia che le forze
britanniche lì presenti non sono riuscite a contenere e fronteggiare.
L’operazione,
che dà di fatto inizio al nuovo corso promesso da Obama in Afghanistan,
risponde a considerazioni di ordine strategico, ma ha anche un implicito
significato politico. Obama non può dirlo, ma l’intensificazione dell’impegno
statunitense in Afghanistan riflette il convincimento che anche nel teatro
afgano si possano applicare le ricette testate a partire dal 2006 in Iraq. Per
questo è fondamentale riacquisire il pieno controllo del territorio,
soprattutto quelle aree dove più forte è la presenza talebana. L’arida valle
dell’Helmand è una di queste ed è anche una regione dove si coltiva una parte
importante dell’oppio attraverso cui si finanzia la guerriglia. Prosciugare
questa fonte di reddito vuol dire limitarne di molto la capacità operativa. Ripristinare condizioni elementari di sicurezza nell’area significa porre le precondizioni per normalizzarne
la vita, promuovere lo sviluppo economico e – nel circolo virtuoso di un
modello liberal di crescita,
progresso e modernizzazione – costruire il consenso tra la popolazione che è
indispensabile per rafforzare il governo centrale e indebolire i talebani. Si
tratta di una strategia classica di nation-building, centrata sul
binomio sicurezza-sviluppo e sulla stabilizzazione politica che esso dovrebbe
garantire.
Ma
l’offensiva serve anche per dare un chiaro messaggio politico: al governo
afgano, al Pakistan e, anche, agli alleati europei. Gli Stati Uniti usano le
truppe aggiuntive portate in Afghanistan per cercare di stabilire una presenza
permanente laddove le forze afgane e quelle NATO non vi sono riuscite. Mostrano
la loro risolutezza nel promuovere una escalation sia dell’azione militare sia
dei programmi di sviluppo civile. Nel farlo chiedono però che essa sia
pareggiata da un maggiore impegno degli alleati della NATO e di Kabul e testano,
una volta ancora, l’effettiva volontà e capacità del Pakistan di partecipare
alla campagna contro i talebani. L’offensiva spinge infatti questi ultimi verso
le zone di confine e obbliga l’esercito pakistano a impegnarsi maggiormente
nell’area.
Obama
è stato quindi di parola. Ha affermato che è l’Afghanistan il fronte principale
della campagna globale contro il terrorismo e ha agito di conseguenza. I rischi
che corre sono davvero tanti. La storia non offre molti esempi riusciti di
operazioni di nation-building quale quella che gli Usa intendono
promuovere in Afghanistan. La stessa surge in Iraq andrà testata nei
mesi a venire, in concomitanza con la progressiva ritirata delle truppe
statunitensi. La prospettiva di un Afghanistan pacificato e controllato dal
governo di Kabul appare quanto mai futuribile. I probabili successi militari
dell’offensiva dovranno essere confermati nelle settimane e nei mesi
successivi, quando i soldati statunitensi e afgani dispiegati nella regione si
troveranno a fare i conti con una guerriglia che ha già dimostrato di saper
approfittare delle opportunità offerte da una presenza stanziale di soldati
avversari in virtù della quale essi si trasformano spesso in facili bersagli.
Non è certo che il messaggio venga infine recepito dagli alleati europei, a
maggior ragione se queste difficoltà dovessero manifestarsi rapidamente. Resta,
infine, il dilemma rappresentato dal Pakistan. Sulla cui tenuta nessuno può
scommettere e che rischia di essere ulteriormente destabilizzato dalla nuova
iniziativa statunitense. L’inazione in Afghanistan non è possibile,
politicamente e militarmente; l’azione apre dilemmi e rischia di far peggiorare
la situazione. Diversamente da altre aree di crisi, in Afghanistan gli Stati
Uniti sono però il soggetto agente: quello le cui decisioni e scelte potranno
risultare decisive. Ed è per questo che sull’Afghanistan Obama si gioca molto,
forse più che su qualsiasi altra questione di politica estera e di sicurezza.

[Il Mattino, 2 luglio 2009]