Mario Del Pero

Una sconfitta politica

Una pessima
giornata, questo venerdì 2 ottobre 2009, per Barack Obama. Alcune stime recenti
sull’andamento dell’economia statunitense avevano indotto all’ottimismo. I
pesanti dati di ieri sull’occupazione riportano tutti con i piedi per terra e
mostrano come la strada per uscire dalla crisi sia ancora lunga e tortuosa. A
pesare ancor di più è però l’eclatante sconfitta subita a Copenhagen, dove la
candidatura di Chicago, la città d’adozione di Obama, a ospitare le Olimpiadi
del 2016 è stata bocciata senza appello.

Obama aveva deciso
di spendersi in prima persona, volando a Copenhagen nella speranza di
convincere i delegati del Comitato Olimpico Internazionale a scegliere Chicago.
Una decisione controversa, questa, criticata dai conservatori statunitensi e
che è servita a poco. Nei giorni a venire le polemiche non mancheranno e
contribuiranno in piccola misura a erodere ulteriormente il capitale politico
di cui dispone il Presidente.

Assieme
all’economia è la politica estera l’altro ambito nodale grazie al quale Obama
ha costruito le proprie fortune elettorali. Quella stessa politica estera che
in questi dieci mesi di Presidenza ha posto l’amministrazione statunitense di
fronte a problemi immensi e dilemmi frustranti. Quanto avvenuto a Copenhagen
può essere in una certa misura letto come una metafora delle tante difficoltà
che gli Usa (e ovviamente Obama) si trovano ad affrontare oggi. A dispetto
della retorica, le Olimpiadi sono infatti un fenomeno tutto politico: negli
intricati e torbidi negoziati che portano alla scelte della sede; nella
gestione e promozione dell’evento; nello stesso momento sportivo, dove i
successi dei propri atleti sono quasi sempre sfruttati come strumenti per la
costruzione del consenso da qualsiasi governo, autoritario o democratico esso
sia. La storia ci offre al riguardo molteplici esempi. Ad essi si aggiunge oggi
la sconfitta di Obama. Che è, appunto, una sconfitta politica. E che è una
sconfitta di politica estera, non priva di rilevanti significati simbolici.

Nel suo intervento
a Copenhagen, Obama si era affidato a elementi ormai classici del suo
armamentario retorico. La candidatura di Chicago è stata così presentata come
ulteriore esempio di un’America che vuole stare pienamente in un mondo dal
quale pretese, almeno ideologicamente, di potersi separare negli anni di Bush. Ed
è stata presentata come esempio di un’America che torna a farsi mondo, grazie
alla sua diversità, al suo pluralismo e, anche, all’universalità dei suoi
ideali e de suoi valori. “Quest’incontro potrebbe tenersi a Chicago”, ha
affermato con il consueto charme Obama, perché la realtà multietnica e
cosmopolita della città (e, con essa, dell’America) la rende appunto “simile al
mondo”. Una città, quella dell’Illinois, dove un cittadino globale come il
Presidente non poteva che trovarsi a suo agio, come ha ricordato Obama
nell’ennesimo tentativo di sovrapporre la propria biografia a quella della
nazione che guida e, con essa, del mondo che gli Usa rappresenterebbero. “In
quelle strade di Chicago” – ha affermato Obama – “ho lavorato fianco a fianco
con uomini e donne bianchi e neri, asiatici e ispanici, di ogni classe,
nazionalità e religione”. Un’America, quella incarnata da Chicago, che proprio
come il suo Presidente vuole stare nel mondo ed ambisce ad essere il mondo.

Il problema, una
volta ancora, è che questo mondo ha sorriso, applaudito e infine girato la
testa dall’altra parte. Come fanno quotidianamente leader israeliani e
palestinesi, afghani e pakistani, per tacere degli alleati europei.

Sarà pure il
retaggio di Bush, l’ipocrisia di molti che delle difficoltà statunitensi non
mancano di godere, il riaffiorare di mai sopiti pregiudizi anti-statunitensi.
Ma Obama davvero poco potrà realizzare se non riuscirà a tradurre in effettiva
capacità di pressione politica l’ampio consenso e la simpatia di cui, stando ai
sondaggi, ancora gode in gran parte del mondo. Senza dimenticare che sul piano
interno, si rafforzano e affilano le armi quelli che di questo mondo continuano
a desiderare di non far parte.

 

Il Mattino, 3 ottobre 2009