Mario Del Pero

Una riforma cauta; un messaggio radicale

Sostenitori e critici della riforma del sistema sanitario di Obama ne hanno celebrato l’ approvazione con toni celebrativi o apocalittici. Come il completamento del grande disegno progressista di Franklin Delano Roosevelt e Lyndon Johnson; o come un’inaccettabile violazione delle libertà individuali da parte di un governo federale sempre più intrusivo e, ormai, quasi socialista.
Sono rappresentazioni bizzarre e, invero, caricaturali. Si tratta di una riforma molto importante, ma moderata nei contenuti, oltre che cauta e graduale nelle sue modalità d’applicazione. Per ottenere la risicata maggioranza che ha infine permesso l’approvazione della legge, Obama è dovuto sottostare a numerosi compromessi, che hanno di molto attenuato i progetti originari e indotto ad abbandonare l’idea di offrire una “public option”, un’assicurazione pubblica in competizione con quelle private. Anche per questo, la riforma non piace granché a molti liberal democratici, disposti infine a sostenerla solo per l’assenza di alternative. Nell’assegnare alla mano pubblica un ruolo di semplice supervisione, integrazione e supplenza – il governo federale impone infatti l’obbligo d’assicurazione e offre sussidi a chi non si può permettere di acquistarne una – la riforma sembra rimandare alla tradizione di un conservatorismo illuminato, a – là Nixon o Eisenhower, più che al progressismo di Roosevelt e Johnson. Non è un caso che nei contenuti e nelle giustificazioni, essa mostri straordinarie assonanze con la riforma promossa in Massachusetts nel 2006 dall’allora governatore repubblicano Mitt Romney che, nel disperato tentativo di accreditarsi con la destra del suo partito, denuncia oggi Obama per avere “tradito il suo giuramento al paese” con “un gigantesco abuso di potere”.
Eppure, a dispetto della sua moderazione, la riforma sanitaria di Obama è per molti aspetti uno spartiacque, la cui rilevanza non può essere sottostimata: per quello che simboleggia, per le possibilità che apre e, ancor più, per ciò che ha evitato.
Ciò che ha prevenuto, innanzitutto. Nei giorni precedenti il voto qualche commentatore, incautamente, ha affermato che una sconfitta avrebbe fatto di Obama un presidente a termine: un nuovo Jimmy Carter. Non era (e non è) questo il problema, sia perché si tratta di scenari assai futuribili sia perché non si vede emergere sulla scena una credibile alternativa nazionale a Obama. La bocciatura della legge avrebbe sortito effetti ben più tangibili sul breve periodo, galvanizzando una destra radicale che tiene oggi in ostaggio il partito repubblicano, riducendo ulteriormente le possibilità di una qualche, minima, collaborazione bipartisan e, soprattutto, mandando definitivamente in frantumi un partito democratico diviso e indisciplinato. Le conseguenze elettorali sarebbero state potenzialmente devastanti per il partito democratico e per il Presidente, già a partire dalle prossime elezioni di mid-term in novembre, a prescindere dai calcoli individuali che hanno indotto alcuni deputati democratici a votare contro.
Per questo, il successo ottenuto sulla sanità apre nuove possibilità all’amministrazione, come si vede già in questi giorni nella discussione sulla riforma del sistema finanziario, passata qualche giorno fa alla commissione competente del Senato senza il previsto ostruzionismo repubblicano. Così come una sconfitta avrebbe posto un macigno sull’agenda riformatrice dell’amministrazione, così la vittoria, per quanto faticosa, permette di rilanciarne l’azione. Dal voto i democratici escono rafforzati e i repubblicani indeboliti: una situazione inimmaginabile solo due mesi orsono, dopo l’incredibile conquista repubblicana del seggio al senato che era di Ted Kennedy.
La rilevanza simbolica della riforma sanitaria, infine. Per quanto misurata e, secondi alcuni, finanche conservatrice la riforma della sanità è un passaggio epocale. Non solo e non tanto per quel che determina, ma per ciò che rappresenta: il rovesciamento di logiche, categorie e, anche, miti che hanno dominato il discorso politico e culturale nell’ultimo quarantennio e ai quali anche Clinton si era spesso dovuto piegare. All’idea, cioè, che iniquità sociali radicate e livelli crescenti di disuguaglianza siano il dazio inevitabile da pagare in una dinamica società post-industriale quale quella statunitense. Con la riforma della sanità, Obama e i democratici hanno lanciato un messaggio opposto. Hanno riaffermato l’idea che il governo federale – il pubblico – ha un obbligo nei confronti dei ceti più deboli ed esclusi; deve intervenire nel correggere squilibri e nel sanare ingiustizie. E può trovare le risorse per farlo anche aumentando il livello di tassazione sui redditi più alti, familiari e individuali. Le misure saranno state caute; il messaggio – considerato quel che è stata l’America in questo ultimo quarantennio – è però davvero radicale.

[Il Mattino, 27 marzo 2010]