Mario Del Pero

Il multilateralismo e l’arma dei poveri

Difficile
che questo summit voluto da Obama produca risultati concreti. E non è certo
questo l’obiettivo del Presidente statunitense. È infatti la valenza simbolica
del vertice – una grande iniziativa multilaterale voluta e promossa dagli Usa –
a definirne la rilevanza politica e diplomatica. Il nucleare, e i pericoli di
cui si fa portatore, lega tutti i soggetti del sistema; è il filo su cui
corrono tante delle interdipendenze delle relazioni internazionali correnti. Ed
è per questo che Obama lo ha posto al centro della sua agenda politica.

Dal
trattato di non proliferazione del 1968 a oggi sono stati ottenuti risultati
importanti: si sono ridotti di molto gli arsenali delle due grandi potenze; altri
paesi, a partire dalla Cina, hanno rinunciato ad essere competitori nucleari,
limitando i propri arsenali a una funzione di semplice deterrenza; il numero di
stati in possesso di armi nucleari, o che ambiscono a dotarsene, è di molto
diminuito (da 20/25 ai dieci attuali). Negli ultimi anni però il nucleare è
tornato a fare paura. Escalation regionali (come nel caso indo-pakistano),
regimi spregiudicati e/o disperati (Iran e Corea del Nord), doppi standard e,
infine, dolose negligenze (gli Usa che non ratificano il test per la messa al
bando degli esperimenti) hanno di fatto bloccato ulteriori sviluppi della
non-proliferazione. La minaccia terroristica, e la possibilità che armi
nucleari cadano in mano a soggetti non interessati a rispettare le regole della
deterrenza, hanno acuito inevitabilmente paure e preoccupazioni. Così come le
ha acuite la possibilità che si scateni una corsa nucleare in Medio Oriente,
alterando equilibri regionali già assai fragili e precari.

La
risposta di Obama a queste paure è quella del negoziato multilaterale. Si
tratta di un multilateralismo almeno in parte obbligato. Poiché nessun soggetto
è immune dal pericolo, s’impone una soluzione consensuale e globale. Ripudiando
una volta ancora le categorie e il lessico di Bush, Obama dimostra di
comprendere chiaramente come non esistano scorciatoie unilaterali con cui
perseguire la sicurezza nazionale. Obama offre una visione per certi aspetti
neo-wilsoniania di una sicurezza che, nell’era nucleare, è di tutti – è “sicurezza
collettiva” – o non è di nessuno.

Il
multilateralismo di Obama sul nucleare, e le modalità con cui lo si declina,
non costituisce però solo il prodotto di vincoli e costrizioni cui anche la
grande potenza statunitense deve sottostare. È un multilateralismo solo in
parte forzoso e imposto. Esprime anche scelte precise che connotano l’approccio
strategico e il discorso politico di Obama. È Il nucleare, infatti, a
costituire l’ambito simbolico scelto da Obama per mettere gli Stati Uniti al
centro della scena: per tornare ad assumere l’iniziativa politica e morale
persa con Bush. Per parlare sia al mondo – che a larga maggioranza apprezza un
presidente statunitense anti-nuclearista e multilateralista – sia a un’opinione
pubblica interna che, quando adeguatamente preparata ed educata, ha dimostrato
di appoggiare politiche di riduzione degli armamenti così come di mal
sopportare le logiche di una pace nucleare fondata sulla possibilità della
propria distruzione, assieme a quella dell’avversario. L’immoralità
dell’equilibrio del terrore nucleare era già stata denunciata con grande
efficacia politica e retorica da Ronald Reagan. Obama ha fatto propria tale
denuncia, in un contesto internazionale non solo mutato, ma anche più precario
e volubile.

In
parte scelto, in parte obbligato, il multilateralismo obamiano è anche, e
inevitabilmente, strumentale. È infatti uno dei mezzi attraverso cui l’amministrazione
Obama cerca di dispiegare una complessa strategia diplomatica. Il nucleare è il
denominatore che genera una comunanza d’interessi tra le principali potenze del
sistema; in quanto tale, permette di attivare un processo negoziale virtuoso
fatto di accordi, scambi e concessioni reciproche, come si è visto bene in
questi giorni nelle relazioni sia con la Russia sia con la Cina. Ed è
strumentale anche perché la riduzione delle armi nucleari permette, in
prospettiva, di ristabilire gerarchie di potenza militare che proprio il
nucleare, a la massimizzazione della capacità di deterrenza che esso fornisce a
chi lo possiede, tende ad annullare. Le armi nucleari sono diventate nel tempo
le armi dei poveri: il deterrente dei disperati, come rivela il caso della
Corea del Nord. Gli Usa, grazie al loro indiscusso primato militare, hanno solo
da guadagnare dal rilancio di un serio regime di non proliferazione.

I
problemi sono tanti. Le tensioni di questi giorni con Israele e Pakistan
indicano come la strada sia lunga e complessa. Vincoli, ideali e interessi
convergono però nel definire la nuova politica nucleare degli Stati Uniti che
costituisce oggi l’ambito principale, e il test più importante, del
multilateralismo obamiano.

[Il Mattino, 14 aprile 2010]