Mario Del Pero

L’America de noantri

Il rapporto tra politica ed expertise, tra chi prende
le decisioni e chi studia i problemi a cui tali decisioni debbono essere
applicate, è questione antica e irresoluta. Lo è in particolare negli Stati
Uniti, la più antica (e, per certi aspetti, vecchia e farraginosa) democrazia
del mondo, dove a varie riprese il caravanserraglio della politica e dei suoi
strumenti è stato messo sotto accusa da riformatori tecnocratici, che ne
denunciavano il carattere corrotto, anti-meritocratico e inefficiente.

Tutto ciò vale ancor più per la politica estera. Oggetto,
questa, di aspre contrapposizioni partitiche e regionali negli Usa, e
catalizzatore di fratture politiche estreme nella discussione su come definire
e declinare l’interesse nazionale. Ma anche ambito che richiede ancor più
competenze – disciplinari e linguistiche – di cui la politica raramente dispone e alle quali si deve gioco forza appoggiare.

Anche di questo si è discusso nell’incontro organizzato dal
Ministero degli esteri e dalle Facoltà di Scienze Politiche italiane; facoltà
dove si concentrano gran parte degli studi internazionalistici e che quindi
rappresentano il naturale interlocutore della diplomazia. L’incontro era sul
tema – oggi assai caldo – del disarmo e della non proliferazione. Un argomento
che permette, in teoria, una feconda interazione tra studiosi, decisori (i.e.:
politici) e diplomatici. I primi portano le loro conoscenze (che, per chi
lavora a scienze politiche, sono per natura inter e pluri-disciplinari), gli
ultimi la loro esperienza e quelli di mezzo, in teoria, apprendono e decidono
con maggior cognizione di causa.

Sulla carta tutto tiene. La storia, a partire da quella
americana, ci dice però che nei fatti le cose sono assai più complicate e che
l’interazione tra ‘scienza’ e politica, conoscenza e decisione, apre spesso dilemmi
 assai complicati. Lo si è capito bene
quando è intervenuta la dott.sa Federiga Bindi, esperta di politica estera e di
sicurezza della UE e fellow alla Brookings Institution di Washington DC, una
delle più importanti e influenti think tank statunitensi. La dott.sa Bindi si
fregia di un titolo non da poco: “Consigliere del Ministro degli Esteri per le
politiche attinenti alla global governance e alle relazioni
transatlantiche”. Se le parole hanno ancora un senso, ciò significa che è uno
dei più rilevanti e influenti consulenti del ministro. Ebbene, Bindi si è
lanciata in una celebrazione di un’America che non solo riconosce le competenze
e le fa accedere ai centri decisionali, ma dove la stessa carriera politica è
vincolata alla capacità del/la aspirante politico/a di mettere sul tavolo un cv
fatto di studi, dottorati, pubblicazioni. Un’America di esperti illuminati dove
per entrare nell’amministrazione “è necessario avere un PhD” e dove Obama è
potuto diventare presidente “perché ha scritto due libri”. Un’America dove –
per usare un termine che la dott.sa Bindi ama molto – vi è “osmosi” piena tra politica,
accademia e think tank; dove politici e studiosi collaborano e si rispettano;
dove, anzi, per fare il politico è buona cosa essere stato prima uno studioso e
un intellettuale. E dove il politico migliore è, appunto, quella che ha un PhD
e scrive su riviste prestigiose e referate.

Lo studioso di Stati Uniti – che pur ritiene essi abbiano
molto da insegnare all’Europa e ancor più all’Italia – non può che stropicciarsi
gli occhi incredulo. Sa bene che la troppa prossimità tra politica e ricerca ha
causato alcuni pericolosi corto-circuiti, in particolare negli anni della
guerra fredda quando gl’investimenti pubblici condizionavano (e in una certa
misura inquinavano) le università. Sa che un certo fideismo tecnocratico ha
provocato danni immensi alla politica estera statunitense, soprattutto in
quella fase storica, con Kennedy presidente, in cui l’intellighenzia dei Best
and Brightest
, come li definì il giornalista David Halberstam, ebbe accesso
senza precedenti al potere e ai centri decisionali. Sa anche che di presidenti
con PhD ve ne è stato solo uno nella storia degli Stati Uniti (Woodrow Wilson,
eletto quasi un secolo fa); che sono pochi i membri importanti dell’attuale
gabinetto che hanno un PhD (su due piedi mi vengono in mente solo Robert Gates
alla Difesa e Steven Chu all’Energia);  e
sa che i due presidenti forse più incisivi degli ultimi 70 anni – Lyndon Johnson
e Ronald Reagan – avevano delle semplice laurette di college improbabili e
minori (rispettivamente Southwest Texas State Teachers College ed Eureka
college, Illinois). Soprattutto chi studia gli Stati Uniti sa che la loro politica
– una politica non di rado brutale e altamente conflittuale – la si fa in sedi
altre dalle università e dalle think tank (creazioni in larga misura recenti,
queste, che meriterebbero un discorso a parte e che sono state ben studiate in
Italia da Mattia Diletti). Obama non è diventato presidente perché ha un PhD
(non lo ha); né perché ha scritto due libri; lo è diventato perché 20 anni fa
ha deciso di fare politica – e di farla da afro-americano – in una delle political
machine
più brutali d’America, quella di Chicago. Dove è cresciuto e si è
fatto le ossa politicamente, in modo spregiudicato e in una battaglia senza
esclusioni di colpi.

Invocare un’America che non esiste a uso e consumo di
un’Italia che, ahimè, è fin troppo presente è davvero molto provinciale. E tra
le tante cose di cui abbiamo bisogno in questo paese non vi sono né ricerca
politicizzata né nuovi consiglieri del principe: di quelli, come peraltro di
principi, ne abbiamo già a sufficienza. Soprattutto non abbiamo bisogno di
caricaturare il resto del mondo, nella fattispecie gli Usa, con banalità e
stereotipi. Da quel mondo abbiamo, sì, molto da imparare: a patto di studiarlo,
conoscerlo e capirlo.

Ps: la consigliera Bindi ha anche rivendicato con forza il
ruolo svolto dall’Italia nel promuovere il processo che avrebbe, tra le altre
cose, permesso il nuovo accordo Start tra Usa e Russia. Un sondaggio
improvvisato con alcuni colleghi non italiani che si occupano di politica
estera statunitense ha rivelato che nessuno, di questo ruolo italiano, era a
conoscenza. I più hanno risposto con una battuta sul tipico velleitarismo
italiano. E, in tutta franchezza, mi è parso di sentire l’eco delle loro
fragorose risate. Ma da storici sospendiamo il giudizio e attendiamo fiduciosi l’apertura
degli archivi – presumibilmente tra 70/80 anni.

3 Commenti

  1. federiga bindi

    caro Del Pero,ho visto solo oggi e molto casualmente il Suo blog. innanzitutto la ringrazio per l’attenzione prestatami mentre parlavo. tuttavia mi permetterei di ribadire che il ruolo cerniera con la Russia e’ reale e ci viene riconosciuto – se non dagli studiosi – dalla stessa Hillary Clinton e da chi con Lei lavora. la contraddizione della politica estera italiana e’ forse proprio che il nostro ruolo e effettivamente piu’ incisivo in ambiti meno pubblicizati ma non per questo meno importanti. la non proliferazione, oggetto della conferenza cui Lei si riferisce e un’altro.quanto alla questione dei PhD etc io non mi riferivo ai ruoli politici di primo livello, bensi’ a quei ruoli intermedi – ma assai influenti – quali Assistant Secretary / Senior Advisors / Special Advisors / Embassadors at Large / Special Represenatives. Per ricoprire tali ruoli negli USA e’ conditio sine qua essere riconosciuti esperti della materia, ed il PhD – oltre alle pubblicazioni – ne e` una sorta “certificazione” internazionalmente accettata tranne, mi verrebbe da dire, in Italia (basta fare un veloce giro sul web e leggere un po’ di CV…).last but not least, e’ vero Obama e` diventato Presidente perche` lo ha deciso da piccolo. ma lei si dimentica che per l’aspirante Presidente, proprio per poter divenire legittimamente aspirante, gli tocca scrivere almeno un libro.. non mi pare che questo sia un prerequisito, benche` informale, esista in Italia.con questo non voglio dire che tutto brilla negli USA e nulla qui, solo che tra i motivi per cui gli USA funzionano meglio e` che danno piu` valore di noi al sapere e, aggiungo, hanno un maggior senso dello Stato, e dell’etica del servizio per lo stesso.

  2. Mario Del Pero

    Cara Bindi,la ringrazio della risposta e mi scuso per non averle replicato prima: per qualche motivo Babele non ci comunica più via e-mail i commenti ai nostri post e solo ora mi accorgo del suo.Ovviamente la pensiamo in modo molto diverso: io credo che lo studioso vero si debba tenere alla lontana dai centri decisionali ovvero che la troppa prossimità ai medesimi ci faccia cessare di essere studiosi e ci trasformi in qualcos’altro (pundits? Consiglieri del principe?). Lei invece sogna “osmosi” piena tra studiosi e decision-makers ed è, ovviamente, liberissima di farlo e di comportarsi di conseguenza. Il problema sorge, però, quando invoca senza conoscerlo l’esempio degli Stati Uniti. Dove questa osmosi ha creato frequenti corto-circuiti ai quali è dedicata, si fidi di me, una vastissima letteratura.Nel guardare all’esempio statunitense mi sembra poi che lei incorra in un secondo grave errore: quello di considerare le think tanks come centri di una ricerca che lei presenta di per sé come neutra e obiettiva. Le scienze sociali e quelle umanistiche, soprattutto quando intrecciano a qualche titolo la politica corrente, sono quanto di meno neutro e obiettivo vi sia, questo va da sé. Lo sono ancor più in istituzioni, le think tank statunitensi appunto, che nascono e si sviluppano con una loro precisa agenda politica e finanche ideologica. In fondo, seguendo il suo ragionamento dovremmo affermare che anche la politica estera di Bush si sia connotata per un alto contenuto “scientifico” che ne avrebbe informato programmi e pratiche, visto che l’AEI e altre think tanks conservatrici fornivano gran parte delle persone (e della expertise) in dotazione all’amministrazione. Sappiamo invece che fu una politica estera tanto ideologica quanto approssimativa. Eppure anche lì i Ph.D. non mancavano, non crede?Insomma, l’America ha davvero tante cose da insegnarci. E la prima – e lo dico davvero senza asprezza – è quella di non parlare di cose che non conosciamoCon i migliori salutiMario Del Pero

  3. Cross Channel Ferries

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    Harry // Cross Channel Ferries

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