Mario Del Pero

Il discorso di Obama all’Onu

Quando il presidente degli
Stati Uniti parla lo fa sempre di fronte a un uditorio che è mondiale. Per il
ruolo degli Usa nelle vicende mondiali, e per ciò che essi simboleggiano e
rappresentano, ogni discorso del loro massimo rappresentante – anche quello su
questioni strettamente interne – è un discorso al mondo. Ma quando, come ha
fatto ieri Obama a New York all’Assemblea Generale dell’Onu, il presidente
degli Stati Uniti parla davvero al mondo, si tende a dimenticare che sta
parlando anche alla propria opinione pubblica e, in una campagna elettorale
come quella in corso, al proprio elettorato.

Il discorso di Obama è stato alto e
finanche coraggioso, nei contenuti e nella retorica. Obama ha parlato al mondo
affinché ascoltasse anche l’America; e ha usato i problemi dell’America per
poter parlare al mondo. Ha condito il suo intervento di riferimenti alla crisi
economica, abbinandola addirittura agli attentati dell’11 settembre: “le strade
e i quartieri di questa grande città ci raccontano la storia di un decennio
difficile”, ha affermato il presidente. “Nove anni fa, la distruzione del World
Trade Center ci mostrò una minaccia che non rispettava i confini della dignità
e della decenza. Due anni fa, una crisi finanziaria iniziata a Wall Street
devastava le famiglie americane della Main Street”. Ha ribadito l’impegno della
sua amministrazione nel fronteggiare la crisi. Nel farlo ha posto un’enfasi
fortissima, e molto “liberal”, sull’ineludibile interdipendenza del sistema
internazionale odierno, che lega le sue varie parti, Stati Uniti inclusi, limitandone
di molto la sovranità e libertà d’azione. Nel farlo, ha ribadito che non
esistono per nessuno, nemmeno per l’ultima superpotenza rimasta, scorciatoie
unilaterali: “il mondo che l’America cerca non è un mondo che essa può
costruire da sola”.

È un mondo sempre più unito e interconnesso,
quello descritto da Obama con sofisticatezza rara per un capo di stato. Unito
nel pericolo, nelle necessità e nelle opportunità.

Simbolo estremo della pericolosità
dell’interdipendenza sono ovviamente le armi nucleari e la possibilità di una
loro incontrollata proliferazione. Un tema su cui Obama ha investito molto nel
suo biennio di presidenza, dopo anni di dolosa negligenza statunitense. E un
tema tornato nel discorso di ieri, in un importante passaggio dedicato
all’Iran, in cui si tende una volta di più la mano (“la porta rimane aperta
alla diplomazia”), ribadendo però la necessità che Tehran rispetti le
risoluzioni dell’Onu e il trattato di non proliferazione.

La necessità, a cui non ci si può più
sottrarre, è quella di cercare una soluzione vera al conflitto
israelo-palestinese. Su questo tema Obama si è soffermato in una parte
significativa del discorso, quando ha sottolineato con forza non scontata tanto
l’impegno degli Usa quanto la loro equidistanza dalle due parti: “se un accordo
non sarà raggiunto, i palestinesi non conosceranno mai l’orgoglio e la dignità
che consegue all’avere un proprio stato e gli israeliani non conosceranno mai
la certezza e la sicurezza che deriva dall’avere un vicino stabile e sovrano
sul proprio territorio, impegnato al rispetto della coesistenza … la Terra
Santa continuerà a essere il simbolo delle nostre differenze e non della nostra
comune umanità”.

Perché assieme a pericoli e
obblighi l’interdipendenza porta con sé delle opportunità, almeno per chi ha il
coraggio e la visionarietà di coglierle. Nel sottolinearlo, Obama ha riproposto
alcuni dei topoi forti del
progressimo “liberal” americano: l’enfasi sulla democrazia e i diritti umani,
il ruolo dei singoli nel muovere il processo storico, la volontà statunitense
far parte di tale moto della storia. Un moto incessante e globale, che ha visto
per protagonisti “i sudafricani che lottavano contro l’apartheid, i polacchi di
Solidarnosc, le madri dei desaparecidos
che denunciarono la guerra sporca, gli americani che marciarono per i diritti
di tutte le razze, compresa la mia”. 
Parole, ci mancherebbe. Ma parole che pochi – e certo pochi politici
statunitensi – sanno oggi utilizzare.

[Il Mattino, 24 settembre 2010]