Mario Del Pero

Governabilità a rischio

Serviranno i dati completi e
definitivi per valutare bene l’esito di queste elezioni di mid-term. Certa
appare però la sconfitta dei democratici, la conquista repubblicana della
camera dei rappresentanti e il ritorno dopo solo due anni a una condizione di
governo diviso.

Un risultato che si può spiegare
in tanti modi diversi: le dinamiche del sistema politico americano, gli errori
di Obama, il peso della crisi economica, la sfiducia verso la politica e le
istituzioni, la tenuta di un conservatorismo prematuramente dato per morto,
l’elitismo di una parte del partito democratico, la volatilità di un elettorato
indipendente tanto indispensabile quanto volubile e indecifrabile. Spiegazioni
indubbiamente corrette, queste, ma anche parziali e insufficienti.

Non lo si può spiegare, questo
risultato, con l’inazione legislativa, anche se l’impopolarità del Congresso –
simbolo per molti americani della Washington odiata e corrotta – rimane
altissima e apparentemente inscalfibile. Il biennio appena trascorso è stato
infatti contraddistinto da un’intensa attività legislativa, per numero di leggi
approvate e importanza delle stesse, su tutte la riforma della Sanità. Ciò è
però avvenuto in una situazione di profonda, e crescente, polarizzazione
politica; è avvenuto cioè a dispetto di una contrapposizione che ha ostacolato
il processo legislativo (al senato i repubblicani hanno fatto un uso senza
precedenti dell’ostruzionismo) e solo grazie alle maggioranze, ampie ancorché
frammentate e poco coese, di cui i democratici disponevano alla Camera e al
Senato.

Se vogliamo riassumere, il
biennio appena trascorso ha mostrato un partito repubblicano indisponibile a
qualsiasi compromesso e sempre più ostaggio delle sue frange più radicali; un
partito democratico indisciplinato, diviso e deresponsabilizzato dall’ampia
vittoria del 2008; e una leadership presidenziale debole e non sempre coerente,
espressa attraverso una retorica – quella del dialogo e della collaborazione
bipartisan – del tutto inadatta al quadro politico attuale.

Alcuni commentatori ritengono che
la sconfitta dei democratici possa essere salutare, per Obama e per l’America.
Che possa responsabilizzare repubblicani e democratici, obbligandoli a quella
collaborazione che è mancata negli ultimi anni. Nel farlo invocano il
precedente storico del 1994, quando il trionfo elettorale repubblicano obbligò
Bill Clinton a mutare rotta, aprendo una fase di feconda collaborazione
simboleggiata da politiche fiscali rigorose e dal rientro del deficit,
culminato nel 1998-2000 con gli unici attivi di bilancio dell’ultimo
cinquantennio.

È lecito però dubitare che una
simile parabola virtuosa possa essere replicata oggi. Vi era allora una
condizione di crescita economica e aumento dell’occupazione facilitata da
condizioni d’innovazione tecnologica probabilmente non ripetibili. A dispetto
di tutto, il partito repubblicano era meno rigido e ideologizzato di quanto non
sia oggi: non vi erano Tea Party all’orizzonte; esistevano ancora repubblicani
progressisti; una figura che allora appariva conservatrice, come il candidato
presidenziale Bob Dole, risulterebbe oggi troppo moderata per trovare spazio
nel partito. Bill Clinton e i suoi consiglieri, infine, dimostrarono un’abilità
e una scaltrezza che sembrano ancora mancare alla squadra di Obama.

Soprattutto, alla collaborazione
tra Clinton e il Congresso repubblicano si giunse solo dopo un drammatico muro
contro muro nel 1995, che impedì l’approvazione della legge sul bilancio, portò
alla temporanea chiusura di varie attività del governo federale e si chiuse con
la vittoria di Clinton sull’allora capogruppo repubblicano alla Camera, Newt
Gingrich. Una situazione analoga paralizzerebbe oggi un paese già prostrato,
dove la protesta populista è sempre più forte e il prestigio delle istituzioni
ai suoi minimi storici. È difficile intravedere vie d’uscita all’impasse in cui
si trova l’America oggi. Ed è ancora più difficile intravederne dopo il voto di
ieri.

Il Mattino, 3 novembre 2010