Mario Del Pero

Wikileaks e lo stato debole

È difficile orientarsi nel guazzabuglio di documenti segreti rivelati ieri da Wikileaks. Come prevedibile, viste la mole di documenti e di fonti, vi si trova un po’ di tutto: gossip, documenti generici, informazioni potenzialmente rilevanti, ma spesso isolate, laddove il ricercatore sa bene che negli archivi non vi sono fonti risolutive – “pistole fumanti” – ma tanti elementi fattuali che acquisiscono importanza solo quando si possono collegare gli uni agli altri, ricavandone una trama e un senso conseguenti.

Dalle prime rivelazioni, emergono però aspetti importanti, relativi sia agli Stati Uniti sia all’Italia e ai suoi rapporti con l’alleato statunitense.

Le rivelazioni di Wikileaks sono un altro segnale della debolezza e delle difficoltà degli Usa. Non per il loro contenuto: è un tipo di corrispondenza diplomatica normale, finanche banale, per qualsiasi paese. Ma perché mostrano l’attuale fragilità della politica e delle istituzioni statunitensi. La loro crescente delegittimazione.

Vari fattori hanno contribuito alla forza degli Stati Uniti. Tra questi vi è stata anche la capacità di giustificare e proteggere non tanto il segreto di stato in quanto tale, ma la sua necessità e il suo utilizzo non arbitrario. Chiunque studia la storia americana, e usa di conseguenza gli archivi, sa bene che quando si tratta di documenti nessun paese – con l’eccezione del Regno Unito – è trasparente e rispettoso delle regole quanto lo sono gli Stati Uniti. Dove esistono norme chiare che disciplinano la consultazione di fonti archivistiche, tali fonti sono conservate in strutture che tutti invidiano, e vi sono regole certe per quanto riguarda i documenti sensibili per la sicurezza nazionale, i limiti alla loro consultazione e la possibilità di chiedere revisioni periodiche (triennali) del loro livello di segretezza e quindi accessibilità. Gli Stati Uniti sono storicamente un paese che custodisce la propria storia, consente che questa venga costantemente messa in discussione e tutela, senza eccessi o arbitri, i propri segreti. Hanno cessato di esserlo, un tale paese, solo quando le istituzioni statuali hanno visto messa in discussione la loro legittimità: perché hanno condotto guerre inutili e divisive; hanno contraffatto intelligence per giustificare tali guerre; hanno mentito ai propri cittadini. Questo stato delegittimato – e gli Usa oggi in larga misura lo sono come lo furono nella fase finale dell’intervento in Vietnam – diventa improvvisamente un soggetto debole e vulnerabile: i suoi segreti vengono esposti, la sua credibilità minata, la sua influenza grandemente ridotta.

Ciò avviene anche nei rapporti con i suoi alleati storici, come nel caso dell’Italia. Un’Italia che sembra uscire in modo ambivalente dalla rivelazioni di Wikileaks. Da un lato vi è un paese che cerca di ritagliarsi un autonomo spazio di manovra, dal Medio Oriente ai rapporti con la Russia, in nome di un interesse nazionale declinato in un contesto internazionale cangiante e fuori dalla tradizionale, ed esclusiva, cornice atlantica. Nel farlo alimenta ovvie frizioni e incomprensioni con il partner statunitense, peraltro non nuove in un rapporto bilaterale che dal 1945 a oggi è stato assai meno ingessato e vincolante di quanto molti non credano. Dall’altro, al di là dei gossip e delle inevitabili strumentalizzazioni politiche, si mostra una volta ancora tutta l’anomalia dell’Italia odierna e di chi la guida. È ovvio che prevalga da parte statunitense un sano pragmatismo e che il governo Berlusconi lo si misuri sull’Afghanistan e non sui festini. È altrettanto ovvia, però, l’importanza dell’immagine che un paese sa dare di se stesso, anche per come questa è rappresentata dalla diplomazia dell’alleato più importante. E l’immagine che ne esce, almeno stando ai documenti di Wikileaks, non può né rallegrarci né renderci orgogliosi.

[Il Mattino, 30 novembre 2010]