Mario Del Pero

Il compromesso di Obama

Come era previsto e, forse, inevitabile Obama ha infine ceduto, trovando un compromesso con i repubblicani sul rinnovo biennale dei tagli generalizzati alle tasse introdotti da Bush nel 2001. Obama voleva che il rinnovo fosse limitato ai soli redditi sotto i 250mila dollari per nucleo familiare. Alla camera era stata approvato un provvedimento, poi bloccato dall’ostruzionismo repubblicano al Senato, che alzava questa soglia minima a un milione di dollari. Ma anche questa concessione non è stata sufficiente. Alla fine, come chiesto dai repubblicani, rimangono in vigore per tutti le aliquote fissate nove anni fa, fra le più basse degli ultimi ottant’anni (quella più alta, per i redditi familiari o individuali superiori ai 370mila dollari, è del 35%; era del 91% negli anni Sessanta e ancora del 50% a metà anni Ottanta). Inoltre, si abbassa di molto (dal 55% al 35%) l’imposta di successione, con una soglia d’esenzione fissata a ben 5 milioni di dollari.

In cambio, Obama ottiene anche più del previsto: crediti fiscali di varia natura, riduzione degli oneri contributivi nelle buste paga di lavoratori con redditi inferiori ai 106mila dollari, soprattutto l’estensione per altri 13 mesi dei sussidi di disoccupazione in scadenza. Di fatto si tratta di un secondo, rilevante stimolo fiscale per l’economia statunitense; proprio quello stimolo – che interviene sul versante delle tasse e non del sostegno diretto alla domanda – cui i repubblicani si opponevano, in nome della responsabilità fiscale e della lotta al deficit. Obama riesce quindi a rinnovare i sussidi e a evitare un aumento della
pressione fiscale, che avrebbe colpito indiscriminatamente tutte le fasce di
reddito. Facendolo, chiude temporaneamente (fino al 2012) questa partita,
evitando che essa sia gestita dal nuovo Congresso, prossimo a insediarsi,
quando i rapporti di forza saranno ancor più sfavorevoli ai democratici.

Eppure, quella di ieri è una sconfitta politica per il Presidente e per il suo partito. La sinistra
democratica denuncia l’ennesimo compromesso al ribasso: l’incapacità di
assumere una posizione ferma su un tema così importante per i propri militanti
e la propria base elettorale; la costante riluttanza a dare battaglia ed
esporre pubblicamente le ipocrisie della controparte. A destra si proclama, con
astuzia, vittoria, evitando di menzionare la parte dell’accordo che va contro
principi (la riduzione del deficit, l’opposizione ai sussidi) tanto ostentati negli
ultimi mesi.

Le conseguenze politiche sono difficili da valutare ora e si manifesteranno pienamente solo nella lunga campagna elettorale destinata ad aprirsi tra poco più di un anno. La vicenda, e le polemiche che ne sono derivate, ci mostrano però una volta ancora l’incapacità di Obama e dei democratici di offrire una narrazione politica, e con essa una visione del futuro, alternativa a quella antipolitica, del “governo minimo”, proposta dai repubblicani. È, quella della destra, una narrazione intrinsecamente populista e assai poco responsabile laddove, in un momento di difficoltà come questo, alimenta il deficit, difende privilegi, legittima il
mantenimento di livelli risibili d’imposizione fiscale su redditi milionari e,
per farlo, è disposta a colpire coloro che sono maggiormente in sofferenza a
causa della crisi. È però anche una narrazione che, nella sua estrema
semplicità – la lotta al governo intrusivo e alle tasse oppressive – si rivela capace
una volta ancora di sfruttare pulsioni profonde, ancorché irrazionali,
dell’opinione pubblica. Quelle pulsioni che un partito democratico diviso e
litigioso e un presidente algido e incline, per necessità e attitudine, al
compromesso non riescono invece a raggiungere.

[Il Mattino, 9 dicembre 2010]