Mario Del Pero

Obama e un’America che cambia

Pare ormai certo che Obama abbia i voti – i due terzi dei senatori presenti in aula – per far ratificare l’accordo Start sulla riduzione delle armi nucleari negoziato con la Russia l’aprile scorso. La ratifica segue di  pochi giorni altri due successi congressuali dell’amministrazione: il compromesso sul mantenimento dei tagli alle tasse di Bush e, soprattutto, l’abolizione della politica del “don’t ask don’t tell”, che di fatto impediva a gay dichiarati di arruolarsi nelle forze armate.

Il presidente sfrutta al meglio l’accelerazione all’agenda legislativa imposta a un Congresso azzoppato e in scadenza di mandato. E ottiene una serie di significative vittorie su una destra più radicale che con troppa superficialità qualcuno aveva proclamato vincitrice delle scorse elezioni di medio-termine. Quella destra contraria all’abrogazione del “don’t ask don’t tell”, che presenta l’accordo Start come una capitolazione degli Usa e che denuncia le concessioni fatte ad Obama per preservare la riduzione delle tasse introdotta da Bush.

Come si spiega l’Obama vittorioso al termine di un anno caratterizzato da un costante calo dei suoi consensi, culminato con la pesantissima sconfitta elettorale di novembre? La lettura più semplice, che molti commentatori moderati ora propongono, è che Obama abbia imparato dagli errori compiuti e si sia rapidamente riposizionato al centro, dopo aver imposto impopolari politiche di sinistra a un’America riluttante e, in ultimo, conservatrice. Queste spiegazioni contengono, forse, un piccolo elemento di verità. Concentrarsi solo su di esso offre però una spiegazione al meglio parziale e al peggio ingannevole. Proprio i due ultimi voti del Senato – sul trattato Start e i gay nelle forze armate – sono lì a rivelarcelo. Se valutati nel merito, le due iniziative non possono essere etichettate come moderate o “centriste”. Sul disarmo e la campagna contro la proliferazione nucleare, Obama ha da subito investito con coraggio, attirandosi molte critiche da una destra che lo ha accusato (e lo accusa) di sacrificare gl’interessi di sicurezza del paese, riducendone di fatto la potenza militare e rinunciando a creare un ambizioso sistema di difesa missilistica. Porre termine alla discriminazione degli omosessuali nelle forze armate, e farlo in modo così consensuale, sarebbe stato (e, di fatto, fu) a sua volta impensabile solo pochi anni orsono.

È ora possibile farlo, come è possibile approvare lo Start, perché un’ampia maggioranza degli americani lo chiede, come rivelano i sondaggi più recenti (le ultime rilevazioni Gallup indicano che il 67% era favorevole ad abrogare la “don’t ask don’t tell” e solo il 26% contrario, mentre il 51% approva la ratifica del tratto Start e il 30% si oppone). È un’America, questa, in movimento; soggetta a trasformazioni politiche, culturali e demografiche profonde, le cui implicazioni sono complesse da decifrare, per chi fa politica così come per chi la osserva e commenta. Elettorato e opinione pubblica si fanno più volubili ed enigmatici; l’affiliazione ai partiti diminuisce; cresce il numero degli indipendenti e, con essi, la volatilità elettorale. Ne consegue un rimescolamento politico la cui natura e i cui esiti sono difficili da esaminare e prevedere. La persistenza di un discorso anti-fiscale, di sostegno a basse tasse e di accettazione conseguente di alti livelli di diseguaglianza, sembra mostrarci un paese di destra. La ridefinizione dei diritti individuali, sull’omosessualità così come sull’aborto e altri “temi etici”, dà un’indicazione opposta, favorisce (e finanche sorprende) i liberal, mettendo sulla difensiva i repubblicani alla Sarah Palin. Alla fine del momento radicalmente unilaterale di Bush sembra corrispondere il ritorno di un internazionalismo multilateralista e collaborativo, che proprio nel nucleare e nel controllo degli armamenti ha sempre trovato un ambito privilegiato d’applicazione.

Obama, questa America in movimento, sembrava averla capita e intercettata nei mesi che lo portarono alla Presidenza. Salvo poi perderla nel passaggio, in sé terribilmente complesso, dalle promesse ai fatti, dalla campagna elettorale all’azione di governo. Non sappiamo, oggi, se Obama stia progressivamente riallacciando un rapporto con questa America. Sappiamo, però, che come la vittoria di Obama nel 2008 non segnalò una radicale svolta di sinistra del paese, così le sue difficoltà di quest’ultimo anno non indicano il riemergere di un’America conservatrice, destinata a riconquistare la Casa Bianca nel 2012. È, invece, un’America che nella sua complessa e multiforme evoluzione impone a entrambi gli schieramenti di aggiornare e ripensare le proprie categorie e, con queste, i propri programmi.

[Il Mattino, 23 dicembre 2010]

1 Commento

  1. Vinicio Dolfi

    Come persona di sinistra, ho plaudito per la vittoria di
    Obama nel 2008 e pianto per la sua sconfitta nelle
    elezioni di mezzo termine nel 2010. Credo anch’ io che
    l’ America di oggi non si possa definire nè conservatrice
    nè progressista. Di sicuro sono conservatrici le sue classi
    dirigenti, con la differenza che sono più intelligenti delle nostre.
    Ma il popolo americano è incerto, confuso e sfiduciato. Il sistema

    economico liberista è fallito, ma decenni, se non secoli, di continua
    educazione e propaganda dell’ ideologia individualista e di esaltazione
    del libero mercato sono difficilissimi da cancellare. A questo si aggiunge
    un sistema istituzionale settecentesco, con soli due partiti ammessi e con
    un parlamento ed un’ esecutivo sganciati ognuno dall’ altro e destinati a
    combattersi tra di loro. Se il sistema americano fosse veramente democratico
    il popolo, invece di essere confuso, saprebbe cosa fare. Spero sempre, comunque,
    che in un modo o nell’ altro la riforma sanitaria di Obama riesca a contribuire a
    cambiare gli Stati Uniti.

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