Mario Del Pero

Stato dell’Unione

È stato un discorso abile, furbo e alto quello di Barack Obama sullo Stato dell’Unione. Un discorso tutto politico, che strizzava però l’occhio all’anti-politica e al diffuso populismo di questi tempi. Un discorso che riaffermava le possibilità illimitate, invero la grandezza e unicità degli Stati Uniti, invocando però sacrifici e impegno. E un discorso, infine, che nel chiedere il superamento delle divisioni e degli scontri puntava a ottenere precisi vantaggi politici, personali e partigiani.

Con fretta e superficialità, qualche commentatore ha rubricato il discorso come centrista, inserendolo dentro una presunta virata al centro imposta a Obama dal risultato elettorale dell’autunno scorso e dalle difficoltà incontrate finora. Su alcune questioni nodali, Obama non è però indietreggiato e ha, se possibile, rilanciato. Si è sottratto, ad esempio, alla esclusiva, per quanto indispensabile, retorica della responsabilità fiscale, tornando a sottolineare la necessità di un piano selettivo d’investimenti pubblici in alcuni settori strategici, dalle infrastrutture all’istruzione, dalle nuove tecnologie alle fonti energetiche alternative. E ha confermato l’intenzione, già annunciata dal segretario della Difesa Gates, di procedere a tagli rilevanti a quella spese militare che è sempre aumentata dal 1998 a oggi, e che sono osteggiati invece da gran parte del fronte repubblicano.

La retorica – suggestiva, visionaria e, inevitabilmente, vaga – ha ricordato quella della campagna elettorale del 2008 più che quella della successiva azione di governo. Una retorica delle possibilità, in cui le difficoltà e i problemi dell’America di oggi costituiscono non limiti e costrizioni, ma opportunità per una nuova rinascita. Una retorica patriottica, con la celebrazione del conflitto democratico, ma anche l’invito a superare fratture ideologiche e a operare per il bene comune (“i dibattiti”, ha affermato Obama, “sono stati aspri e ci siamo scontrati fieramente per le nostre convinzioni. Ma ciò è necessario. È  ciò che una robusta democrazia chiede. È quanto ci distingue come nazione”). E, infine, una retorica globalista, laddove si afferma che i successi futuri degli Stati Uniti dipenderanno non solo dalla capacità di collaborare con il mondo, ma anche di competere con esso e con le sue parti più dinamiche e in ascesa (e qui, i frequenti riferimenti a Cina e India sono stati particolarmente significativi).

I primi sondaggi sembrano premiare Obama, i cui indici di popolarità erano già tornati a salire dopo la batosta delle elezioni di medio-termine. È futile, però, soffermarsi su rilevazioni volatili e dalla scarsa rilevanza. La partita, nei mesi a venire, si giocherà su alcuni temi fondamentali – l’occupazione e la ripresa economica su tutte – e sulla capacità di Obama di far ricadere sugli avversari repubblicani la responsabilità degli inevitabili scontri politici che ostruiranno l’azione di governo. Il discorso di Obama di ieri è però servito per riposizionare il Presidente al centro della scena e riprendere nelle mani tempi e forme del confronto politico. Obama è per certi aspetti tornato alle origini: l’invito a superare le divisioni in nome di un bene superiore e condiviso fu il marchio del primo Obama. Soprattutto, si è affidato ad alcuni elementi classici della retorica politica statunitense, in particolare un patriottismo declinato in modo assai più sofisticato e meno manicheo di quello del suo predecessore, ma comunque forte nella descrizione dell’America: di ciò che è stata, è e, soprattutto, potrà essere. Perché è patriottico chiedere unità e coesione in vece di conflitto e divisioni; come lo è, del resto, evocare un’America che continui a essere “non solo un luogo su una mappa, ma una luce per il mondo”. Un’America che guarda a un futuro non dato, per grazia divina o per meriti pregressi, ma da “conquistare”: un futuro che – ha affermato il Presidente, citando non a caso Robert Kennedy – non “è un regalo, ma una conquista”, che impone a questa generazione, come a quelle passate “sacrifici, lotte e la capacità di rispondere alle domande di una nuova epoca”.

Il Mattino, 27 gennaio 2011