Mario Del Pero

Obama e la Libia

Fa una certa impressione trovare Stephen Walt e William Kristol schierati dalla stessa parte nell’invocare un’azione più assertiva degli Stati Uniti contro Gheddafi e la sua brutale repressione delle proteste in Libia. A chiedere un più deciso sostegno per riguadagnare le masse arabe e, nelle parole di Walt, evitare che “la retorica” statunitense di “esaltazione della democrazia e dei diritti umani non appaia come la più basilare delle ipocrisie”. Walt è infatti uno studioso realista, ferocemente critico nei confronti di Bush, delle sue crociate democratiche e della relazione speciale tra Stati Uniti e Israele, mentre Kristol è un falco filo-israeliano, fondamentalista neoconservatore, che le crociate di Bush ha ispirato e appoggiato.

E però in Libia le difficoltà e i dilemmi di Obama sono se possibile ancor maggiori che in Egitto. Per gli Usa, Gheddafi è stato a lungo un comodo nemico assoluto, trasformatosi negli anni da aspirante leader del fronte panarabo ad anarchico e spregiudicato terrorista. Ma nell’ultimo decennio è stato anche un utile interlocutore degli Usa e dell’Occidente, con il quale si firmavano importanti accordi economici e al quale si delegavano con sollievo lavori sporchi, dall’immigrazione alla lotta all’islamismo radicale. Un interlocutore, non un alleato, cui si perdonavano mattane (e mattanze) e con il quale almeno gli Usa non avevano bisogno di esporsi diplomaticamente, fornendogli ad esempio aiuti militari.

Ed è proprio la peculiarità di questo rapporto/non-rapporto a porre un primo problema agli Usa ovvero a limitarne la capacità di condizionare scelte e comportamenti del dittatore di Tripoli. Diversamente dall’Egitto e dallo stesso Bahrein, gli Stati Uniti non dispongono di canali istituzionali alternativi – le forze armate su tutti – con i quali interagire e ai quali appoggiarsi. Di fronte all’incedere degli eventi, gli Usa si trovano cioè con armi ancor più spuntate rispetto a quanto già non fosse in Egitto due settimane fa.

Il secondo dilemma ripropone, in forme nuove e forse ancor più drammatiche, quello già manifestatosi in Egitto: l’equilibrio tra esigenza di stabilità e desiderio di democrazia, tra la certezza della prima e i rischi della seconda. Perché Gheddafi ha a modo suo (in modo cioè osceno) garantito una qualche forma di stabilità, che gli Usa come molti paesi europei hanno infine imparato ad apprezzare.

Il terzo e ultimo dilemma – per Obama come per tutti i suoi predecessori – è rappresentato dall’opinione pubblica statunitense e da come questa può reagire a un’azione politica più incisiva degli Stati Uniti. Walt ipotizza, poco realisticamente, l’attivazione sotto egida Onu di una forza internazionale di peacekeeping da inviare in Libia. Kristol chiede addirittura “sforzi aggressivi, aperti o clandestini, diretti o indiretti, per aiutare i liberal … in Medio Oriente”, anche a costo di “considerare l’uso della forza”. Ma Walt e Kristol sono esponenti di elite politiche e intellettuali e, nel caso del secondo, di elite screditate dagli errori ed eccessi dell’ultimo decennio. Al resto del paese, Obama ha promesso (e continua a promettere) circospezione, cautela e realismo. Che è poi quanto l’America, proiettata sui suoi problemi interni, continua a chiedere. Un terzo degli americani, stando all’ultimo sondaggio Gallup, ritiene addirittura che gli Usa debbano svolgere un ruolo minore se non marginale negli affari internazionali (erano solo un quinto nel 2003). Sempre stando a rilevazioni Gallup di due settimane fa, nel pieno della crisi egiziana, gli americani ritenevano quanto stava avvenendo in Egitto poco più importante di quanto avveniva in Canada (e meno di ciò che accadeva in Messico e nella Corea del Nord).

Insieme all’evolvere, già drammatico, della situazione libica è questa la variabile, fondamentale ma spesso dimenticata, che orienterà infine le scelte di Obama, in Libia e altrove, con buona pace di Kristol e delle “centinaia di milioni di amanti della libertà nel mondo” che a suo dire attendono oggi un’azione più decisa degli Stati Uniti.

Il Mattino, 24 febbraio 2011