Mario Del Pero

Obama si ricandida

A più di un anno e mezzo dal voto, e solo pochi mesi dopo la pesante sconfitta democratica alle elezioni di mid-term, Barack Obama ha annunciato la sua decisione di ricandidarsi. Decisione scontata come lo è del resto la tempistica. Dentro il ciclo elettorale senza tregua della democrazia statunitense, i presidenti in carica tendono ormai a rendere noto con largo anticipo queste scelte (Clinton e Bush fecero sostanzialmente lo stesso). Ciò permette loro di iniziare prima la raccolta di finanziamenti, che nel caso di Obama mira a superare la cifra astronomica di un miliardo di dollari. E permette di mobilitare segmenti importanti della propria base (e del proprio volontariato) che nel caso di Obama vuol dire soprattutto gli elettori under 30 e gli afroamericani: che votarono massicciamente per lui nel 2008, sono stati a casa nel 2010 e vanno riconquistati nel 2012.

Allo stato attuale, Obama è indiscutibilmente il favorito. La controparte repubblicana appare divisa, lacerata e priva di precisi leader attorno a cui raccogliersi. Il dilettantesco radicalismo del Tea Party suscita malumori crescenti tra l’opinione pubblica e tra pezzi importanti dell’establishment repubblicano, come vediamo bene in questi giorni nella discussione sul bilancio. Mancano al momento figure credibili e forti in grado di aspirare alla Presidenza. Non lo sono i Gingrich e i Romney, privi di carisma e screditati da un passato incoerente e, nel caso del secondo, dalle posizioni troppo liberal assunte nel momento della responsabilità di governo (come governatore del Massachusetts). Non lo sono certo le pasionarie movimentiste come Michelle Bachmann e Sarah Palin, il cui populismo può pagare nelle elezioni di medio termine, ma molto meno in quelle presidenziali. Non lo è, ancora, il giovane e abile senatore della Florida Marco Rubio, che ha finora scelto un basso profilo attraverso cui si è distinto in mezzo alle tante, confusa urla repubblicane.

Qualunque avversario sarà scelto, dovrà poi confrontarsi con la macchina da guerra elettorale di Obama. Fatta di consiglieri straordinariamente abili e, se necessario, spregiudicati, a partire da David Axelrod, che ha lasciato il suo posto di consigliere alla Casa Bianca per coordinare la campagna del presidente. E dotata di risorse che nessuno sfidante sarà presumibilmente in grado di pareggiare. Risorse le cui fonti porranno però un problema all’Obama candidato come lo hanno posto all’Obama presidente. I finanziamenti alla campagna di Obama verranno presumibilmente da tre gruppi principali: i sindacati (ormai dominati dal settore pubblico), Wall Street e la new economy della Silicon Valley e affini, nelle sue varie e plurime manifestazioni (tra i principali finanziatori di Obama nel 2008 troviamo Goldman Sachs, JPMorgan, Google e Microsoft). Gruppi, cioè, portatori d’interessi tra loro molto diversi e difficilmente conciliabili. A maggior ragione in assenza del collante, in negativo, offerto nel 2008 da Bush e dal suo lascito disastroso. Conciliare i diversi pezzi dell’elettorato democratico sarà il primo grande problema di Obama. Il secondo sarà invece riattivare l’entusiasmo del 2008 e mobilitare giovani e sinistra profondamente disillusi dal presidente e in particolare dalla sua politica estera e di sicurezza, dalla guerra in Afghanistan (che continua) al carcere di Guantanamo (che non viene chiuso). Obama in una certa misura correrà quindi contro se stesso, soprattutto se la crescita economica continuerà e inciderà finalmente sull’occupazione. E dalle contraddizioni sue e del suo partito, più che da avversari ancora aleatori, verranno presumibilmente i maggiori problemi.

[Il Giornale di Brescia, 5 aprile 2011]