Mario Del Pero

Obama & Osama

Anche se la rete televisiva Fox celebra l’evento come una rivincita di Bush e della sua campagna globale contro il terrore, l’eliminazione di Osama Bin Laden costituisce un indubbio, e per certi aspetti straordinario, successo politico per Barack Obama. Un successo in un ambito – quello della politica estera e di sicurezza – rispetto al quale i democratici, e ancor più questo Presidente, sono storicamente vulnerabili. E un successo che avviene in un momento di rinnovata difficoltà politica per Obama, criticato a destra come a sinistra sia per l’atteggiamento ondivago tenuto sulla crisi libica sia per i successi limitati della escalation in Afghanistan. Una guerra – quella afgana – che Obama ha sempre rivendicato come guerra giusta e necessaria, in contrapposizione a quella inutile e sbagliata, promossa in Iraq; ma anche una guerra di cui l’America è ormai stanca, come evidenziato da sondaggi secondo i quali più del 60% degli intervistati chiede un disimpegno rapido e la fine dell’intervento statunitense.

Non solo Obama diventa, sia pure temporaneamente, un apprezzato presidente di guerra: un vero comandante in capo. Ritorna altresì a essere presidente unitario, di sintesi, capace, nel momento del successo e del rinnovato patriottismo, di simboleggiare ed esprimere la ritrovata unità di un paese fino a oggi polarizzato e diviso.

Al successo politico interno si aggiunge anche quello internazionale. Gli Stati Uniti tornano ad apparire la guida di una comunità internazionale che trova nella lotta al terrorismo uno dei suoi pochi comuni denominatori. Ne assumono, almeno simbolicamente, quella leadership cui sembravano avere in parte abdicato.

Proprio lo scenario internazionale rivela però i rischi e i pericoli che questa vittoria – operativa e simbolica – porta con sé. Nei giorni e nelle settimane a venire scopriremo se vi sarà una rappresaglia delle tante cellule terroristiche che in una qualche misura si rifanno ad Al Qaeda. L’operazione, l’eco che l’ha accompagnata, la reazione all’eliminazione di Bin Laden riportano però il terrorismo al centro della scena mediatica; un Osama Bin Laden ormai dimenticato dai più si trasforma potenzialmente in martire, con effetti che, nuovamente, potremo scoprire solo nelle prossime settimane.

Le reazioni negli Stati Uniti – le scene di esultanza nelle strade, i cori a Times Square e davanti alla Casa Bianca – pongono anch’essi problemi da non sottovalutare. Rivelano, nei loro eccessi, quanto aperta – e quindi politicamente esplosiva – rimanga la ferita dell’11 settembre. Mostrano il volto – roboantemente nazionalista – di un’America che piace poco o nulla al resto del mondo. Sembrano riportare indietro le lancette della storia, farci tornare agli anni di Bush: del suo unilateralismo, della sua retorica manichea e binaria, dei suoi proclami bellicosi. Rischiano, in altre parole, di far evaporare rapidamente il capitale faticosamente conquistato da Obama, con la sua retorica inclusiva e collaborativa, con la sua diplomazia multilaterale, tutta tesa a costruire consenso e delegare, laddove possibile, oneri e responsabilità. Tra l’America che esulta e il mondo – soprattutto il mondo degli alleati di quest’America – che osserva, in parte sollevato e in parte sbigottito, sembra aprirsi nuovamente uno iato. E torna a manifestarsi con forza una contraddizione con la quale, dopo l’ascesa degli Stati Uniti a indiscusso leader del sistema internazionale, qualsiasi presidente statunitense si è dovuto confrontare: la necessità di parlare a due opinioni pubbliche, quella interna e quella mondiale; l’obbligo, estremamente arduo, di rendere complementari due messaggi che il più della volte non possono essere tali. Volente o nolente, l’Obama che celebra, con orgoglio e soddisfazione inevitabili e malcelati, l’uccisione di Bin Laden è un Obama che a molti finisce per ricordare molto – troppo – il George Bush dell’immediato post-11 settembre.

Il piano interno, infine. Negli Stati Uniti, gli indici di popolarità di Obama sono destinati a schizzare in alto. E Obama diverrà, per un po’ di tempo, il “presidente che ha eliminato Bin Laden”. Nel ciclo continuo della politica di oggi, e della narrazione senza tregua che l’accompagna, ciò però non basterà. George Bush Sr. aveva tassi di popolarità del 90% dopo la prima guerra del Golfo. Pochi mesi più tardi fu sconfitto da un quasi sconosciuto governatore dell’Arkansas, Bill Clinton, diventando così l’unico presidente del dopoguerra, assieme a Jimmy Carter, a non essere rieletto a un secondo mandato.

È una vittoria per Obama, l’eliminazione di Bin Laden; questo è indubbio. Una vittoria la cui portata e le cui implicazioni non possono essere sottovalutate. Come tutte le vittorie, è però anche una vittoria da maneggiarsi con cautela, con la consapevolezza dei suoi rischi e, anche, dell’inevitabile affievolirsi dei suoi effetti.

Il Mattino, 3 maggio 2011