Mario Del Pero

Default, Ideologia e leadership debole

È impensabile che una qualche soluzione, per quanto pasticciata e temporanea, non verrà escogitata e che il tetto del debito statunitense, attualmente fissato a 14mila e 300 miliardi di dollari, non sarà aumentato prima della scadenza ultima del prossimo 2 agosto. Gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo, non si possono permettere un default. Esso alimenterebbe un’ulteriore destabilizzazione finanziaria, affondando il dollaro, che rimane la valuta di riferimento del sistema internazionale, e indebolendo gravemente i titoli del Tesoro statunitense, che a dispetto di tutto costituiscono una delle fonti d’investimento più sicure e privilegiate. Un default provocherebbe un ulteriore aumento dei tassi d’interesse, proprio quando vi è bisogno del contrario, per sostenere una ripresa produttiva ancor debole e aiutare le milioni di famiglie americane pesantemente indebitate e in sofferenza. Più di tutto, il default minerebbe la capacità del governo statunitense di far fronte a obblighi già contratti. Perché alzare il tetto del debito, ossia aumentare la capacità d’indebitamento del paese, proprio a questo serve: a ottenere le risorse necessarie per ottemperare a impegni già assunti e per coprire spese in larga parte avvenute nel corso dell’anno fiscale 2011, che si chiuderà a settembre. Ci s’indebita cioè non per assumere nuovi impegni, ma per rispettare quelli già presi. Per pagare le spese previdenziali e sanitarie, così come gli stipendi ai militari e le pensioni e l’assistenza ai veterani di guerra. Un default obbligherebbe a scelte drammatiche e a tagli generalizzati a queste voci di spesa, in un’America già in pesante sofferenza , dove il tasso di disoccupazione ufficiale sfiora il 10% e quello reale – che include i sottoccupati e coloro che non cercano nemmeno più lavoro –  si colloca tra il 15 e il 20%.

Alcuni membri del Tea Party denunciano l’ingiustificato allarmismo di Obama e dei molti che temono il default. Orgogliosamente nazionalisti, credono nella capacità statunitense di isolarsi dalla tempesta che ne conseguirebbe. Sono però voci fattesi sempre più flebili nelle ultime settimane. Il default non è semplicemente contemplabile. Eppure ci si muove sull’orlo del precipizio; si negoziano accordi poi immediatamente disattesi; ci si accusa reciprocamente d’irresponsabilità; si attivano tavoli di confronto diversi, nei quali si mescolano incongruentemente dialettica istituzionale (presidenza contro congresso, senato contro camera), politica (repubblicani contro democratici, moderati contro radicali) e, anche, generazionale (senatori di lungo corso, propensi alla mediazione e al dialogo, contro deputati appena eletti, zelanti e ideologicamente inflessibili). Come già in passato, Obama ha cercato di ergersi al di sopra delle parti: di presentarsi come il presidente capace di superare le divisioni o di portarle quantomeno a sintesi. Incalzato a destra, ha rilanciato con un piano di rientro dal deficit e di riduzione del debito di 4mila miliardi, concentrato per l’80% su tagli a vari programmi di spesa previdenziale e sanitaria e per il residuo 20% su aumenti della pressione fiscale sui redditi più alti. Nel farlo ha indisposto una sinistra democratica sempre più irritata per le sue concessioni, senza per questo ottenere le auspicate aperture a destra. Una destra a sua volta divisa e cacofonica, dove i giovani turchi della camera, guidati dal capogruppo Eric Cantor, si sono scontrati con lo speaker, il deputato dell’Ohio John Bohner e, ancor più, con alcuni senatori, a partire da Mitch McConnell. Difficile capire chi stia vincendo o, forse, perdendo meno nella contesa: se un presidente indeciso, spesso incapace di esercitare la leadership richiesta in queste circostanze, o un partito repubblicano ostaggio delle sue frange più radicali e incapace di capire che un governo diviso, come quello attuale, obbliga a compromessi e mediazioni. I sondaggi sembrano premiare per il momento Obama. Ma gli stessi sondaggi rivelano un altro, più significativo aspetto: la crescente sfiducia dell’opinione pubblica verso le istituzioni, i due partiti e la politica più in generale (secondo l’ultimo sondaggio Gallup, il tasso di approvazione dell’operato del Congresso è al 17%, tra i più bassi di sempre). Un disincanto che Obama nel 2008 era parso in grado di rovesciare e che, da presidente, ha finito invece per alimentare. E questa, al momento, è forse la sua sconfitta più grande.

Il Messaggero, 26 Luglio 2011