Mario Del Pero

La cattiva politica statunitense

Il modello grazie al quale gli Stati Uniti hanno, nell’ultimo trentennio, ripensato la propria egemonia mondiale e preservato la pace sociale interna non poteva alla lunga reggere. Troppe erano (e sono) le sue fragilità e contraddizioni. E però la transizione in atto si sta rivelando più problematica di quanto non si potesse immaginare pochi anni fa. Pesa la complessità dei problemi da affrontare; pesano gli errori compiuti e le scelte ritardate; ma pesa anche la più generale debolezza di una politica che, nell’occasione, sta dando davvero una modesta prova di sé.

Quel modello, egemonico e in larga misura consensuale, poggiava su tre pilastri fondamentali. Il primo erano i consumi: voraci, quasi bulimici di un’America che, alla fine degli anni settanta, rigettava l’austerity invocata dall’allora presidente Carter e rilanciava, esasperandola, la sua natura di prima, compiuta democrazia dei consumi di massa. Il mercato americano trainava la crescita economica mondiale; consumi diffusi e credito facile rendevano socialmente tollerabile il riaprirsi, e rapido ampliarsi, delle diseguaglianze all’interno degli Usa. Il secondo pilastro era rappresentato dai capitali, di cui gli Stati Uniti diventavano importatore netto, grazie all’indiscusso primato del dollaro, alla riconosciuta credibilità (la mitica tripla A) del debito statunitense e alla deregulation del settore finanziario (con la nascita di nuovi, sofisticati e allettanti prodotti). Quei capitali aiutavano l’innovazione tecnologica – tratto distintivo dell’America degli anni Ottanta e, soprattutto, Novanta – e permettevano livelli crescenti d’indebitamento pubblico e privato. Di un privato che consumava a debito e di un pubblico che solo indebitandosi poteva affrontare spese sociali e militari sempre più onerose, in un quadro di tagli generalizzati alle tasse. Era infatti la riduzione drastica delle imposte il terzo pilastro del compromesso.

Questo compromesso non poteva però reggere. Perché le sperequazioni interne non sarebbero infine state tollerabili; perché la crescita abbisognava di livelli d’innovazione, se non di vere e proprie rivoluzioni tecnologiche,  che non possono avvenire ogni decennio; perché si alimentavano e giustificavano forme di speculazione destinate prima o poi ad esplodere; perché, infine, solo precise condizioni geopolitiche – l’unipolarismo e l’incontrastato primato mondiale degli Stati Uniti – rendevano il sistema accettabile al resto del mondo.

Come spesso accade nelle tempeste perfette, queste condizioni, tra loro strettamente intrecciate, sono venute a mancare simultaneamente. I tagli alle tasse e le alte spese sociali e militari, aggravate dalle due guerre più lunghe della storia statunitense (Iraq e Afghanistan), hanno messo ancor più in sofferenza conti pubblici già disastrati. L’egemonia statunitense – quanto meno quella valutaria e finanziaria – è stata apertamente contestata. Sul piano interno, si sono manifestati il disincanto prima e la rabbia poi di un’America che ha consumato tanto, sprecato molto e che si ritrova oggi più povera, indebitata e vulnerabile.

Nei momenti di transizione e crisi ci vorrebbe una buona politica. O quantomeno una politica capace e responsabile. In grado di dire agli elettori che la spesa sanitaria per gli anziani non può, da sola, assorbire quasi il 4% del Pil; che chi guadagna milioni di dollari non può pagare tasse risibili (l’aliquota più alta sul reddito è oggi del 35%; era il 70% nel 1980); che nel 2011 lo scarto tra i redditi più alti e quelli più bassi non può essere ciò che era negli anni Venti del Novecento. Questa buona politica però manca. L’America si trova schiacciata tra un presidente incerto, titubante e, forse, non all’altezza del ruolo e un’opposizione repubblicana che invece d’intercettare e disciplinare la pancia di un paese spaventato e confuso, la riflette ed estremizza. La cattiva politica diventa quindi l’ultima variabile di una miscela potenzialmente esplosiva: per gli Stati Uniti, ma anche per il resto del mondo che agli Usa è legato in un reticolo di vincoli e interdipendenze al quale nessun soggetto del sistema internazionale può davvero pensare di sottrarsi.

Il Messaggero, 10 agosto 2011

2 Commenti

  1. Angelo Morini

    Concordo pienamente con l’analisi di Del Piero. Ho l’impressione che la crisi economica mondiale non avrà termine fino a quando i Grandi del mondo non si renderanno conto che la crescita non può durare in eterno, così come suggeriva il Club di Roma oltre 30 anni fa, e soprattutto non si trovano soluzioni e aiuti per i paesi poveri del mondo.

  2. Andrea Fumarola

    Credo che tanto le debolezze di Obama quanto l’estremistica aggressività repubblicana, rappresentino due facce di una stessa medaglia, ovvero della causa, forse preponderante, della “cattiva politica americana” di questi ultimi mesi. Si tratta di una causa connessa alla natura stessa del sistema politico statunitense: il cosiddetto “divided government” (creatosi dopo le elezioni di midterm 2010) che, come hanno dimostrato su tutte negli ultimi trent’anni anni le presidenze Reagan e Clinton, porta ad un progressivo blocco decisionale del sistema, a svantaggio così della qualità e dell’efficacia delle policies americane.

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