Mario Del Pero

La Tempesta Perfetta

Irene è stata, per molti aspetti, una “tempesta perfetta”. Per la sua portata – stiamo pur sempre parlando dell’uragano più potente che abbia colpito New York nell’ultimo trentennio – capace di fare danni per 30/40 miliardi di dollari, allagare Filadelfia come non avveniva da più di un secolo e togliere l’elettricità a metà degli abitanti del Connecticut. Perché ha colpito le importanti città della costa orientale, raramente bersaglio di fenomeni atmosferici con i quali altre parti del paese hanno una ben maggiore familiarità. Perché la sua prossimità al decennale dell’11 settembre (e il suo seguire un altro fenomeno anomalo, il terremoto di qualche giorno fa in Virginia) ha contribuito ad alimentare paure e analogie dalla forte pregnanza simbolica. Perché, infine, a livello sia locale sia nazionale vi era l’esigenza politica di sfruttare la situazione e mostrarsi all’altezza della sfida. Ne aveva bisogno il sindaco Bloomberg, il tecnocrate post-partitico che fa dell’efficienza la sua bandiera e che aveva gestito male, molto male, la forte nevicata che paralizzò New York il natale scorso; ne aveva bisogno il presidente Obama, alla disperata ricerca di occasioni per esprimere una leadership che negli ultimi mesi è stata decisamente deficitaria; ne aveva bisogno, infine, la burocrazia federale, in particolare la FEMA, l’agenzia che deve gestire i disastri, la cui immagine è ancor oggi legata alla approssimativa e vergognosa gestione dell’uragano Katrina, che sommerse la città di New Orleans nel 2005.

L’America sa essere estrema e radicale in molte cose. La meteorologia, e il trattamento che i media le riservano, è una di queste. Lo mostrano la periodica, devastante violenza di tempeste e tornado che colpiscono diverse regioni del paese; i picchi delle temperature, anche nelle città (nel 2011 quelle di Boston sono oscillate tra i meno 23 e i 41 gradi); l’estrema variabilità climatica, soprattutto della costa orientale; il freddo insopportabile delle pianure dell’ovest; il caldo torrido degli stati sud-occidentali, popolati solo dopo l’invenzione dell’aria condizionata;  i metri di neve che periodicamente seppelliscono New York e i venti gelidi che spazzano Chicago.

È inevitabile che una radicalità simile abbia delle forti implicazioni politiche e mediatiche. I media si occupano in maniera ossessiva di meteo. Lo fanno con estrema precisione nelle previsioni e con pari (e urlato) allarmismo nei toni: una nevicata diventa una “tempesta di neve”; un forte vento un “quasi tornado”, un uragano di quelli seri – come appunto Irene – una potenziale Apocalisse. E la politica non può che adeguarsi: l’allarmismo genera emergenze; le emergenze diventano occasione per dimostrare efficienza e leadership, anche a costo di far evacuare quasi 400mila persone da New York. Una scelta esagerata, ora lo possiamo ben dire; che a posteriori pochi però si sognano di criticare, perché è in fondo sempre meglio errare dal lato della cautela, come a New York 2011, che da quello dell’irresponsabilità, come a New Orleans 2005. È chiaro che dietro l’esagerazione della minaccia rappresentata da Irene vi siano stati anche le esigenze dei media e i calcoli della politica. Quelli di un sindaco impegnato a dare marziale esempio di efficienza; e quelli di un Presidente che ha un disperato bisogno di apparire leader e comandante in capo. Non vi è nulla di scandaloso in tutto ciò. E però, tutto questo conta e dura davvero poco una volta inserito nel tritacarne di una politica-spettacolo che sta sotto i riflettori ormai 24 ore al giorno: la politica delle esagerazioni; delle apocalissi; delle notizie sensazionali (le “breaking news”) a getto continuo. Una politica usa-e-getta, peraltro: dove, come ci ricorda la vicenda dell’eliminazione di Bin Laden, anche gli effetti del successo politico più eclatante finiscono per durare lo spazio di una giornata.

 

Il Messaggero, 30 agosto 2011