Mario Del Pero

Memorie Diverse

Come oggi, anche l’11 settembre 2001 mi trovavo a New York. Andando in ufficio quel mattino vidi una delle due torri in fiamme. Pensavo fosse un incendio e da un telefono pubblico chiamai mia moglie, che si trovava in Italia. Mentre parlavamo al telefono arrivò il secondo aereo. Come molti altri, scesi fin quasi alle torri per vedere e capire cosa stava accadendo.  Nessuno pensava che sarebbero crollate. Quando avvenne, ci mettemmo tutti a correre verso nord, con la nuvola di cenere e polvere che ci ricopriva e il terreno che sembrava aprirsi sotto i piedi, come durante un fortissimo terremoto. Andai in ufficio, come molti altri. E li passai il mio 11 settembre, davanti a un computer che aveva perso la connessione Internet e a un telefono a lungo senza linea. A cercare di comprendere qualcosa che era incomprensibile. Agognando una normalità che non sarebbe mai potuta essere.

Nelle ore e nei giorni successivi quella New York, violata e ferita, si raccolse assieme: nelle veglie; nelle lunghe file per donare il sangue od offrirsi come volontari per gli scavi a ground zero; nelle serate trascorse a guardarsi negli occhi, senza proferire parola; nel desiderio di ritornare a una quotidianità ormai impossibile. New York si risollevò rapidamente dagli attentati, più rapidamente di quanto non si credeva possibile. Con alcune partite memorabili, gli Yankees arrivarono alle World Series e quasi le vinsero, entusiasmando anche quella parte di New York che li odia come solo la squadra di baseball più ricca, arrogante e vincente può essere odiata. Il sindaco Rudy Giuliani dismise il suo fare da sceriffo e colpì tutti per l’efficienza e la dignità con cui gestì il post-11 settembre. A natale le strade, gli alberghi e i negozi erano (o, almeno, sembravano) nuovamente pieni.

Per New York, però, l’11 settembre acquisì un significato diverso rispetto al resto dell’America e di chi la guidava allora. È sbagliato dire, come spesso si fa, che New York non sia l’America. Perché New York è, più di qualsiasi altra città, l’America nella sua interezza: le mille, cangianti Americhe che hanno fatto e continuano a farla questa America.  E però quell’11 settembre ha in parte allontanato New York dal resto del paese. L’11 settembre è stato vissuto diversamente e la memoria di quell’evento costruita attraverso processi e meccanismi propri. Ogni newyorchese porta infatti con sé un ricordo personale, intimo, dell’11 settembre. Ecco perché a New York la roboante retorica nazionalista e quasi imperiale che contraddistinse la reazione dell’amministrazione Bush fu vissuta da molti come una violenza: una violazione di questa intimità; una banalizzazione di quanto era accaduto; una strumentalizzazione del suo significato. A pochi piacque il presidente Bush che urlava “U.S.A.! U.S.A.” sulle macerie del World Trade Center, abbracciato a un vigile del fuoco che  a stento tratteneva l’imbarazzo. Pochi compresero come da ground zero ci si potesse trovare improvvisamente in Iraq. Nelle presidenziali del 2004, appena il 22% dei newyorchesi votò per Bush (il suo avversario Kerry superò il 73%). A Manhattan Kerry ottenne l’82% dei voti e Bush il 17.

Non diversa sembra essere oggi la reazione all’inevitabile profluvio di parole e immagini che accompagna il decennale di quella drammatica giornata. Un campione di queste memorie newyorchesi lo si trova in uno splendido progetto di storia orale promosso da Columbia University, basato su centinaia d’interviste con newyorchesi che raccontano la loro esperienza di quell’11 settembre. Racconti diversi di una città mosaico, ricca e diversa come è New York. Racconti dove non manca la volontà di rivalsa o addirittura l’ansia di vendetta: contro Bin Laden, Al Qaeda, talvolta l’Islam tutto. Ma dove, talora apertamente talora sottotraccia, si manifesta chiaramente lo scarto con la narrazione ufficiale e pubblica dell’evento e del suo significato. Ed è la persistenza, se non addirittura il consolidamento, di questo contrasto tra memoria pubblica e memorie private a colpire oggi. New York sembra vivere con sobria e nobile sofferenza questo anniversario. Come un necessario atto di memoria, collettiva e individuale. Come summa di ricordi intimi e dolorosi.

A New York non si celebra oggi la grandezza del paese e delle sue libertà. Non la si celebra perché questa grandezza sembra essere in discussione e perché chi di essa si riempie quotidianamente la bocca – un mondo politico fazioso, litigioso e assai poco responsabile – pare aver perso qualsiasi credibilità. Soprattutto, non la si celebra perché per ogni newyorchese l’11 settembre è, ed è destinato a rimanere, qualcosa di proprio, intimo e personale; di cui nessun altro può indebitamente appropriarsi; che nessuno può permettersi di strumentalizzare o banalizzare.

Il Messaggero, 10 settembre 2011