Mario Del Pero

La debolezza di Obama

Tre anni orsono Barack Obama veniva eletto presidente al termine di una competizione elettorale coinvolgente e appassionante come poche altre nella storia. Per quanto difficili potessero apparire allora le sfide che Obama era chiamato ad affrontare, pochi avrebbero immaginato che tre anni più tardi i tassi di impopolarità del presidente avrebbero raggiunto i livelli odierni e che la sua rielezione sarebbe stata in pericolo. Certo, la complessità dei problemi da affrontare e l’ineluttabile scarto tra aspettative e possibilità – tra quel che si prometteva e quel che realisticamente si poteva realizzare – erano sotto gli occhi di tutti. Si riteneva però che Obama avesse ricompattato il paese, sanandone almeno in parte le profonde fratture politiche, sociali e culturali; che la lezione della crisi del 2007-2008 avesse reso il mondo politico e l’opinione pubblica più disposti ad accettare una serie di riforme e a fare i conti con le macroscopiche contraddizioni del modello di sviluppo dell’ultimo trentennio; che, infine, la fitta rete d’interdipendenze commerciali, finanziarie e valutarie avrebbe obbligato le principali potenze mondiali a collaborare, sia pure forzosamente, per evitare diffusioni pandemiche di problemi circoscritti, fossero essi il debito greco o la crisi di una grande banca statunitense.

Tutti e tre questi assunti si sono però rivelati infondati. E l’amministrazione Obama ha finito anch’essa per sottrarsi alle proprie responsabilità, evitando in ultimo di fare i conti con alcuni dei fattori cruciali che avevano concorso a causare la crisi. Dopo il primo piano di stimoli all’economia del febbraio 2009 e il fortunato salvataggio dell’industria automobilistica, che si sommavano all’utilizzo aggressivo della leva monetaria da parte della Federal Reserve, Obama è indietreggiato e non ha adottato quegli strumenti di regolamentazione del settore finanziario che molti invocavano. Un mondo, quello di Wall Street, che rimane peraltro tra i maggiori finanziatori della campagna elettorale del presidente e dal quale provengono alcuni dei suoi principali consiglieri, a partire dal segretario del Tesoro Timothy Geithner.

La svolta politica e culturale che le elezioni del 2008 avrebbero dovuto certificare non si è a sua volta realizzata. Al contrario, la crisi e il suo drammatico impatto su molte regioni degli Stati Uniti hanno concorso ad alimentare un populismo anti-politico e anti-istituzionale che invoca un’ulteriore ritirata dello stato e non una crescita del suo ruolo, come soggetto regolatore e supplente in fase di bassa crescita e carenza d’investimenti quale quella attuale. Soprattutto dopo la faticosa riforma del sistema sanitario, a oggi la più importante vittoria politica di Obama ma anche quella più onerosa in termini di capitale politico, i termini della discussione si sono spostati sui disastrati conti pubblici e non sulla necessità di promuovere politiche espansive di sostegno all’economia e ai consumi. La richiesta di utilizzare la leva fiscale per rastrellare le risorse necessarie a rendere compatibili i due obiettivi di sostenere la crescita e ridurre il debito si è quindi scontrata con questo clima, che denuncia qualsiasi aumento delle imposte come l’atto predatorio di un governo federale che travalicherebbe le proprie prerogative. Poca importa se le imposte sui redditi di persone fisiche e imprese sono oggi a livelli bassissimi, e se in termini di ricchezza individuale siamo tornati a forme di sperequazione sociale pre-1929.

Queste difficoltà interne statunitensi si riverberano però inevitabilmente sul resto del mondo. La debole volontà regolamentatrice del sistema finanziario ha reso più difficile un’azione concertata a livello mondiale; la fragilità del dollaro e i macroscopici squilibri commerciali hanno aggiunto ulteriori elementi d’instabilità; soprattutto, le politiche di austerity adottate dopo le elezioni di mid-term del 2010 hanno ulteriormente contratto la capacità di consumo delle famiglie americane, già in sofferenza in seguito alla crisi del settore immobiliare e al conseguente impoverimento del patrimonio con cui erano riusciti a fronteggiare l’alto tasso medio d’indebitamento. Si tratta di quei consumi che hanno trainato la crescita globale e che sono privi per il momento di sostituti. Gli Usa si trovano così al centro di una crisi che li soffoca e che hanno contribuito a causare. Lo fanno con un presidente debole e non particolarmente coraggioso, un’opposizione ideologica e ostruzionista e partner internazionali alle prese con i loro problemi, oltre che incapaci di guardare oltre l’orticello di casa. Con la consapevolezza, peraltro, che la scadenza elettorale del 2012 renderà ancor più difficile l’adozione delle politiche necessarie per uscire dal guado.

Il Messaggero