Mario Del Pero

Santorum e la debolezza dei repubblicani

Dopo risultati deludenti in South Carolina e Florida, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum vince, e con margini significativi, le primarie e i caucus di tre stati importanti quali il Minnesota, il Missouri e il Colorado. Non ottiene, di fatto, alcun delegato: sarà il partito ad assegnare i delegati in Minnesota e in Colorado, mentre in Missouri si tornerà a votare più avanti, il 17 di marzo. E difficilmente Santorum potrà offrire un’alternativa a Mitt Romney che, salvo cataclismi oggi difficilmente immaginabili, sarà l’avversario di Obama in novembre. Da domani la macchina elettorale di Romney inizierà a muovere contro Santorum, finora risparmiato dalla pubblicità negativa e dagli attacchi rovesciati, con abilità e successo, addosso all’altro avversario di Romney, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich.
La rilevanza, non solo simbolica, del voto di ieri non può però essere sottostimata e ci dice molto, rispetto al voto di novembre e alle possibilità repubblicane di riconquistare la Casa Bianca. Innanzitutto, i successi di Santorum rivelano una volta ancora la debolezza di Romney e, più in generale, del partito repubblicano. A dispetto dei suoi sforzi e del suo radicale spostamento a destra degli ultimi anni, Romney piace poco al sud cristiano e bianco e risulta indigesto a pezzi importanti della working class bianca e conservatrice, che nel mid-West – dall’Iowa al Minnesota – ha finora premiato Santorum. Anche se non lo si può dire pubblicamente, Romney insospettisce per la sua fede mormone. E continua a indisporre per la sua ricchezza, a lungo ostentata e oggi goffamente occultata, per i suoi frequenti cambiamenti di posizione, per la sua evidente incapacità di comunicare con un’America conservatrice e finanche bigotta, ma dignitosa e in sofferenza, che fatica a immedesimarsi in un miliardario con il fascino e il calore umano di un androide di prima generazione.
La debolezza e i problemi di Romney sono però quelli di tutto il partito repubblicano. Un partito i cui principali esponenti stanno in gran parte con Romney, ma che rimane diviso su linee di frattura plurime, profonde e in alcuni casi difficilmente ricomponibili. Fratture regionali, religiose, di classe, tra establishment e base, elite e militanti. Romney è il candidato designato perché offre un minimo comune denominatore ai tanti pezzi di questo composito mondo repubblicano: nonostante tutto è il candidato capace di attrarre consensi ampi e trasversali, come lo stesso voto ha finora dimostrato. Si tratta però di un minimo comune denominatore al ribasso, che consegue alla mancanza di alternative più che a una scelta positiva.
Infine, è difficile sottostimare oggi le cicatrici che queste primarie – brutali e non di rado volgari – sono destinate a lasciare. Romney, e i gruppi privati (le cosiddette SuperPacs) che lo sostengono, hanno finora operato con spregiudicatezza, ampi mezzi e, va detto, straordinaria efficacia. Hanno distrutto la campagna di Gingrich sul nascere, quando la crescita della sua popolarità in Iowa lo aveva trasformato in un pericoloso avversario (l’unico, avversario davvero pericoloso), per poi infliggerle un secondo colpo devastante dopo il successo in South Carolina. È presumibile che faranno lo stesso con Santorum, per quanto il passato di quest’ultimo lo renda meno vulnerabile di Gingrich. Alla fine delle primarie vi saranno però ferite profonde, difficili da rimarginare, per quanto odiato sia Obama e forte il desiderio di sconfiggerlo in novembre.
Obama e il suo team osservano e certamente apprezzano. Meglio di così per loro non potrebbe davvero andare. Se Obama dovesse essere il primo presidente dai tempi di Franklin Delano Roosevelt a venire rieletto nonostante un tasso di disoccupazione superiore al 7%, una parte non secondaria del merito sarebbe dei suoi avversari.

Il Mattino, 9 febbraio 2012