Mario Del Pero

Il voto del super-martedì

Romney vince, ma non sfonda. È questo il commento più frequente all’esito del voto del super-martedì, dove dieci stati mettevano in palio un numero di delegati superiore a quello assegnato da gennaio a oggi. Un commento corretto, ancorché parziale e potenzialmente fuorviante. Perché il dato davvero rilevante è che Romney non ha perso, in particolare in Ohio.

Venuta meno la possibilità di una rapida vittoria, Romney sa che la nomination dovrà essere conquistata attraverso una lunga campagna elettorale: accumulando delegati; contenendo le inevitabili sconfitte; sperando che il fronte conservatore continui a disperdere il suo voto su più candidati.

Dinamiche, queste, che sono state in larga misura confermate dal voto di ieri. È infatti ulteriormente cresciuto lo scarto tra i delegati (circa 400) conquistati da Romney e quelli di Rick Santorum (165) e Newt Gingrich (105). Non si è assottigliato il numero di pretendenti (la vittoria in Georgia e il voto imminente in altri stati del sud tengono in vita Gingrich). E si è rivelato una volta ancora lo scarto tra le risorse e l’organizzazione di cui dispone Romney e quelle dei suoi rivali: in Ohio Romney ha speso circa dodici volte più di Santorum, che non è riuscito a raccogliere le firme necessarie per essere presente sulla scheda elettorale di alcune contee e, addirittura, nell’intero stato della Virginia.

Ora la contesa si sposta nel sud profondo – Mississippi, Alabama e più avanti Louisiana – e nel primo ovest, in Missouri, Illinois e in Kansas. Stati nei quali, con la possibile eccezione dell’Illinois, Romney parte decisamente sfavorito. La dispersione del voto conservatore tra Gingrich e Santorum e meccanismi simil-proporzionali di allocazione dei delegati dovrebbero però permettergli di limitare i danni, prima del rush di aprile, quando si voterà, spesso con maggioritario puro, in stati della costa orientale assai favorevoli all’ex governatore del Massachusetts.

Il voto di ieri, in altre parole, conferma e consolida lo status di super-favorito di Romney. A sostegno del quale si sono pronunciati, non a caso, anche leader importanti della destra repubblicana, come il capogruppo alla Camera, il deputato della Virginia Eric Cantor.

E però, questa lunga campagna elettorale sembra indebolire Romney e i repubblicani. Per quanto il desiderio di sconfiggere Obama ricompatterà molti repubblicani in novembre, le scorie lasciate da una campagna estremamente brutale non potranno essere del tutto rimosse. La fragilità di Romney, candidato privo sia di carisma sia di capacità aggregante, è sotto gli occhi di tutti. Come lo è il deficit di entusiasmo tra l’elettorato, espressosi nei bassi tassi di partecipazione al voto e in una conseguente, ulteriore radicalizzazione del dibattito politico, che ha spinto ancor più a destra i repubblicani.

Primarie con bassa partecipazione elettorale e alto tasso di militanza dei votanti finiscono per danneggiare il partito repubblicano, rendendolo meno capace d’intercettare un paese che cambia molto in termini demografici (si pensi solo al peso crescente dell’elettorato ispanico), sociali e culturali. Un paese dove cresce esponenzialmente il sostegno al riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso (dal 27 al 53%, in soli 15 anni, secondo un recente sondaggio Gallup), mentre Rick Santorum tuona contro i contraccettivi e la licenziosità degli stili di vita di molti suoi compatrioti. Più di tutto, queste primarie mostrano lo scarto profondo tra l’America plurale e variegata che voterà in autunno e quella – omogenea, minoritaria, impaurita e, talora, incattivita – che sta votando in questi mesi. Tra un’America che cambia e si trasforma, come sempre nella sua storia, e un pezzo non marginale, ma di certo non maggioritario, del paese che il cambiamento in atto non lo vive, non lo accetta e cerca, senza successo, di fermare.

Il Mattino/Il Messaggero, 8 marzo 2012