Mario Del Pero

Dissenso e sovranità

È difficile prevedere i futuri sviluppi del caso di Chen Guangcheng, l’attivista cinese per i diritti umani che dopo essere rocambolescamente evaso dagli arresti domiciliari ha trovato rifugio per una settimana presso l’ambasciata statunitense a Pechino. Chen si trova ora in un ospedale della capitale, mentre negli Usa divampano le polemiche per la presunta leggerezza con cui è stato gestito il caso e l’amministrazione Obama viene messa sotto accusa sia dai repubblicani sia dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. È probabile che un qualche compromesso sarà infine raggiunto e che, almeno temporaneamente, Chen potrà andare a studiare negli Usa.

La vicenda è però rilevatrice delle fragilità di una relazione, quella tra Cina e Stati Uniti, tanto contraddittoria quanto centrale per gli equilibri globali. Il soggetto egemone del sistema internazionale, gli Stati Uniti, e il suo principale antagonista potenziale, la Cina, sono infatti legati da un’interdipendenza  fattasi negli anni strettissima e ineludibile. Il mercato statunitense ha trainato la crescita dell’economia cinese; gli investimenti e le delocalizzazioni produttive americane hanno contribuito all’impetuoso sviluppo industriale della Cina; una quota crescente del debito degli Usa è finito in mani cinesi; il modello di consumi senza inflazione che ha contraddistinto gli Stati Uniti dell’ultimo trentennio sarebbe stato impensabile senza la produzione e le esportazioni della Cina.

Si tratta però di un’interdipendenza sbilanciata, in un contesto di transizione degli assetti mondiali, che si dovrà giocoforza risolvere con un riequilibrio meno vantaggioso per Washington. Tale transizione impone però scelte complesse e cedimenti ad ambo le parti. Gli Usa dovranno rivedere un modello di consumi probabilmente insostenibile, ma che ha avuto una funzione non secondaria nel garantire pace sociale e coesione politica; e dovranno accettare, quanto meno in Asia, di vedere ridotto e bilanciato il loro indiscusso primato militare. La Cina sarà costretta a ripensare il suo modello di sviluppo trainato dalle esportazioni, a rivalutare la propria moneta perdendo così competitività, e a contribuire alla crescita globale attraverso un aumento dei consumi interni permessi dallo straordinario tasso di risparmio pubblico e privato.

Da ambo le parti pare esservi piena consapevolezza di ciò, come emerge anche dai colloqui di questi giorni e dagli sforzi dei due governi di abbassare la soglia della tensione. Un razionale riconoscimento delle convergenze d’interessi, assieme alla consapevolezza di avere destini sempre più intrecciati, spinge naturalmente verso la collaborazione. E però i rischi sono altissimi. La volatile e litigiosa politica statunitense, ormai in permanente stato di mobilitazione elettorale, inserisce nell’equazione una variabile pericolosa e destabilizzante. Gli oppositori di Obama cercano di sfruttare la situazione, e la voce di Chen che invoca aiuto da Hillary Clinton arriva addirittura in diretta all’audizione di una commissione del Congresso. In Cina, le interferenze americane vengono denunciate da settori nazionalisti, in particolare nelle Forze Armate, mentre è in corso una complessa lotta per il potere, i cui termini sono difficili da decifrare, ma nella quale agitare lo spettro della minaccia statunitense può risultare politicamente utile.

Al di là delle contingenze politiche, fondamentale per una parte come per l’altra sarà accettare una messa in discussione, ed una eventuale limitazione, della propria sovranità. È impensabile che il regime cinese possa proseguire indisturbato sulla strada della repressione del dissenso politico: perché nell’era di Twitter e Facebook è ormai impossibile occultarlo; e perché le rappresaglie occidentali sarebbero inevitabili. Gli Usa però dovranno a loro volta abbandonare una parte di quei privilegi quasi imperiali di cui hanno goduto nell’ultimo ventennio. Dovranno cioè non solo integrare pienamente la Cina nell’ordine internazionale a egemonia statunitense, ma anche accettare una riduzione di questa egemonia, nell’ambito militare così come in quello energetico. Non sarà facile, ma alternative non sono date, se non quella di una escalation delle tensioni, pericolosissima e in ultimo incontrollabile.

Il Mattino/Il Messaggero, 5 maggio 2012