Mario Del Pero

Obama e l’Europa

Obama accusa l’Europa di “gettare un’ombra” sull’economia statunitense, concorrendo a rallentare una ripresa già indebolita dall’ostruzionismo del Congresso; il suo portavoce,  Jay Carney, rincara la dose, denuncia la timidezza delle riforme intraprese dall’Europa e sollecita un’azione più incisiva contro la crisi del debito. Bill Clinton, ormai impegnatissimo nella campagna di Obama, si spinge oltre e rovescia addosso a Romney e ai repubblicani una delle loro accuse più frequenti al presidente: quella di voler europeizzare gli Stati Uniti. Il candidato repubblicano Mitt  Romney, afferma così l’ex presidente, vuole imporre agli Usa le politiche europee di “austerità e disoccupazione”, destinate a far aumentare il debito, alzare i tassi e rendere ancor più difficile l’uscita dalla crisi.

L’Europa entra così prepotentemente del dibattito pubblico e politico degli Stati Uniti. Lo fa assumendo il suo ruolo classico: quello di capro espiatorio. Perché ciò avviene proprio ora e come si spiega questa repentina, e in una certa misura sospetta, svolta “anti-europea” di Obama? Due risposte possono essere offerte.

In primo luogo vi è una genuina preoccupazione per la situazione europea e i suoi potenziali (e in parte già effettivi) riverberi globali. Il tempo a disposizione si assottiglia sempre più, la rigidità tedesca rimane immutata, così come i malumori del resto di un’Europa divisa e debole, ma sempre meno disposta ad accettare passivamente la linea merkeliana dell’austerity. Esporsi come ha fatto Obama serve così per esercitare pressioni su una Germania vieppiù isolata e per offrire una sponda esplicita agli altri principali paesi dell’UE, che invocano meno rigore e più sostegno alla crescita.

Ma serve, e questa è la seconda spiegazione, anche in chiave elettorale. I deludenti dati recenti sull’occupazione negli Usa avvantaggiano Romney e mettono Obama in una condizione di estrema difficoltà. Il presidente rimane favorito, ma la contesa è assai più incerta di quanto non si pensasse solo qualche mese fa. Attaccare l’Europa offre, in chiave elettorale, molteplici vantaggi: permette di contestare ai repubblicani quel vessillo dell’anti-europeismo che essi hanno sostanzialmente fatto proprio nell’ultimo biennio; soddisfa le pulsioni del mondo liberal e della sinistra democratica, particolarmente severi nei confronti dell’ortodossia tedesca e della gestione della crisi greca; aiuta, appunto, a scaricare su altri la responsabilità delle attuali difficoltà statunitensi.

È una strategia, però, difficilmente efficace e potenzialmente pericolosa. Le vicende europee sono seguite con occhio distratto dall’elettorato statunitense; secondo un recente sondaggio Gallup, solo il 16% degli americani sta prestando molta attenzione alla situazione finanziaria europea e ai problemi dell’Euro. Denunciare le colpe europee può inoltre apparire un atto di debolezza da parte di un Presidente in difficoltà, incapace di assumersi le proprie responsabilità, e di  un paese non più in grado di esprimere una leadership globale, e in chiara difficoltà anche nelle relazioni con i suoi alleati storici. A monte sembra esservi un deficit di egemonia dalle radici antiche, ma che è andato accentuandosi nell’ultimo decennio. Un’Europa matura e coesa avrebbe probabilmente già offerto una sponda a Obama. Ma questa Europa chiaramente non esiste. E la fondamentale e necessaria collaborazione tra gli Stati Uniti e l’Europa diventa così la potenziale vittima del combinato disposto rappresentato da un presidente debole, impegnato in una complicata campagna elettorale, una crisi economica che non sembra avere soluzioni, e un’Europa dominata da un egemone, la Germania, che dimostra quotidianamente la sua inadeguatezza al ruolo.

Il Mattino/Il Messaggero, 6 giugno 2012