Mario Del Pero

La normalità di Obama

Obama “deve andarsene” e “l’America ha bisogno di un nuovo presidente”, proclama lo storico britannico Niall Ferguson in un lungo fondo che dà la copertina dell’ultimo numero di Newsweek. Troppi sarebbero  stati i fallimenti di Obama per giustificarne una conferma alla Casa Bianca: l’insufficiente crescita dell’economia statunitense, l’indebolimento degli Usa sulla scena internazionale e l’incapacità di contrastare l’ascesa della Cina, l’ulteriore deterioramento dei conti pubblici e l’aumento senza freni del debito.

L’affondo di Ferguson è in sé meno rilevante, e politicamente incisivo, di quanto non si possa credere. In pesante crisi d’identità e di vendite e sotto la nuova, spregiudicata direzione di Tina Brown, Newsweek ha abbandonato la cauta sobrietà del passato, per offrire prime pagine e articoli politicamente scorretti, che hanno peraltro preso di mira lo stesso Romney (del quale, in una copertina di giugno si chiedeva se non fosse troppo “insicuro” e “fifone” – wimp – per poter essere presidente). Studioso spesso brillante, soprattutto quando tratta di storia della finanza internazionale, e divulgatore abile ancorché controverso, Ferguson è anche commentatore straordinariamente fazioso e provocatorio, capace di celebrare la grandezza dell’imperialismo britannico, invitare l’amministrazione Bush a prendere tale imperialismo a modello, appoggiare con entusiasmo l’intervento in Iraq nel 2003 e fare da consigliere a McCain nel 2008. Il tutto, cambiando reiteratamente idea su questioni non propriamente marginali, in particolare il futuro delle relazioni sino-statunitensi.

L’attacco di Newsweek a Obama viene pertanto da un settimanale in crisi e da un polemista di professione che, facendosi scudo della sua cattedra a Harvard, usa (e talora stravolge) con disinvoltura fatti e dati, come molti commentatori non hanno mancato di evidenziare anche in relazione a questo suo ultimo articolo.

Questo non significa però che la vicenda sia irrilevante. La copertina di Newsweek e l’articolo di Ferguson, come molte altre critiche più solide e meno grossolane mosse a Obama, sono indicative di un processo di graduale, ancorché inarrestabile, “normalizzazione” del Presidente, che potrebbe pesare sul voto di novembre. La sua figura quasi messianica del 2008 e le sue radicali promesse di cambiamento di allora sono ormai definitivamente evaporate. In parte ciò era inevitabile, stante il macroscopico scarto tra aspettative e possibilità. Obama vi ha però messo del suo, governando in modo al meglio pragmatico e cauto e non disdegnando – come si è visto in alcuni recenti attacchi a Romney – di ricorrere a quei metodi che solo pochi anni fa denunciava con vigore. Lo scarto, in altre parole, è stato non solo tra ciò che si prometteva e ciò che realisticamente si poteva realizzare, ma anche tra la retorica coinvolgente e trascinante della campagna del 2008 e la leadership presidenziale timorosa e distaccata che ne è seguita. L’ostruzionismo radicale e assai ideologico della controparte repubblicana ha reso l’azione di governo ancor più complessa, ci mancherebbe. Ma Obama, con la sua guida debole, incerta e talora contraddittoria, ha responsabilità molto gravi.

Tutto ciò potrebbe avere implicazioni rilevanti in chiave elettorale. Un’analisi disaggregata del voto del 2008 mostra la centralità, nella coalizione obamiana, di segmenti dell’elettorato – su tutti quello giovane e afro-americano – mobilitati proprio dalla “diversità” di Obama: dalle sue promesse di discontinuità e rottura, dalla sua figura quasi messianica, dalla sua retorica appassionante e inclusiva. Un Obama “normalizzato” questo voto lo intercetta e mobilita molto meno. Ed è questo, oggi, il suo problema principale,  ben più degli articoli d’intellettuali ambiziosi e spregiudicati, disposti a molto, forse a troppo, pur di conquistare la copertina di Newsweek.

Il Messaggero, 22 agosto 2012