Mario Del Pero

La politica estera nella campagna elettorale

Con una curiosa inversione di ruoli rispetto alla tradizione, è il democratico Obama oggi ad apparire più credibile e affidabile sul terreno della politica estera e di sicurezza. Proprio rispetto alle tematiche internazionali, sulle quali quattro anni fa Obama appariva spesso naif e impreparato, il Presidente ha maturato un capitale di credibilità e consenso che bilancia, sia pure solo in parte, la disillusione e disaffezione dell’elettorato nei confronti di altre sue scelte politiche. Stando all’ultimo sondaggio Gallup, sulla politica estera il 52% degli intervistati preferisce Obama e solo il 40% indica invece Romney; un dato completamente rovesciato quando si parla invece di economia.

La politica estera di Obama piace agli americani per due ragioni, solo apparentemente incongruenti. Da una parte accoglie la richiesta dell’opinione pubblica di ridurre gli impegni globali degli Stati Uniti, assumendo un ruolo più defilato rispetto a teatri di crisi come quello libico o, oggi, siriano, e riducendo gradualmente la presenza statunitense in Iraq e Afghanistan. Dall’altra, dà corso a un’aggressiva, e non di rado spregiudicata, azione anti-terroristica globale, basata sull’uso intensivo dei droni, il mancato rispetto di alcune delle promesse di 4 anni fa (in particolare la chiusura del carcere speciale di Guantanamo) e, più in generale, la disponibilità a sottrarsi a molti dei vincoli imposti dal diritto internazionale.

Vi è, in altre parole, molta realpolitik nella politica estera obamiana, a dispetto del linguaggio cosmopolita e liberale che il Presidente ama dispensare. Ed è un realismo che l’America, in questo snodo storico, dimostra di apprezzare e appoggiare.

Su questo, e forse oggi solo su questo, i repubblicani e Romney si trovano sulla difensiva. Per distinguersi, sono costretti ad assumere posizioni estreme, che riecheggiano quelle ormai screditate del neoconservatorismo post-11 settembre. Romney cerca di parlare il linguaggio di un nazionalismo radicale per il quale Obama non sarebbe un buon americano, la Cina e la Russia rappresenterebbero pericolosi avversari geopolitici, Israele andrebbe sostenuto con nettezza ancor maggiore, posizioni più ferme andrebbero assunte nei confronti dell’Iran, l’Europa costituirebbe l’anti-modello per antonomasia. Posizioni, queste, rigettate dall’elettorato, potenzialmente incendiarie e prive di qualsivoglia consapevolezza della natura del sistema internazionale corrente e delle costrizioni imposte dal reticolo d’interdipendenze che legano gli Stati Uniti e gli altri soggetti di tale sistema, a partire proprio dalla stessa Cina. Non a caso, la recente missione internazionale di Romney in Europa e Israele, che doveva nelle intenzioni consolidarne l’immagine di statista in pectore, è stata segnata da gaffe, imbarazzi e strafalcioni.

Tutto bene quindi per Obama almeno per quanto riguarda la politica estera? No, un problema c’è e si è già manifestato. La realpolitik obamiana rappresenta uno dei tanti esempi dello scarto tra le promesse obamiane (“chiuderemo Guantanamo entro un anno”, affermò il Presidente non appena entrato in carica) e i suoi atti concreti: tra le aspettative generate dalla sua elezione e i risultati effettivamente conseguiti. È uno scarto, questo, che contribuisce in modo decisivo a ridurre l’entusiasmo di alcune fasce cruciali dell’elettorato, in particolare quello giovane degli under-30, la cui partecipazione massiccia al voto potrebbe invece risultare decisiva in novembre. È questo forse il paradosso principale del consenso interno per la politica estera di Obama. Per quanto apprezzata, essa rischia di portare pochi voti aggiuntivi, ché le priorità degli americani sono oggi altre e altri sono quindi i criteri che orientano le decisioni di voto ultime. In compenso, però, le scelte e i comportamenti di politica estera finiscono anch’esse per alimentare quella disaffezione verso Obama che concorre a rendere così incerto l’esito del voto.

 

Il Mattino, 6 agosto 2012