Mario Del Pero

Uragani sulla politica

No, non è stata davvero una grande idea quella di svolgere la convention repubblicana di fine agosto a Tampa, Florida. L’arrivo del ciclone Isaac ha infatti costretto a posporre di un giorno l’inizio dei lavori, imposto una riorganizzazione del calendario della convention e, soprattutto, dirottato altrove l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Ma la Florida dal clima tropicale, le zanzare a dimensione rondine, le frequenti precipitazioni estive e, appunto, le tempeste e gli uragani è, con i suoi 29 delegati, premio elettorale tanto contestato quanto cruciale e ambito, come del resto il North Carolina dove si svolgerà la settimana prossima la convention democratica.

L’arrivo di Isaac e i problemi organizzativi dei repubblicani riuniti a Tampa riportano alla memoria una delle pagine più vergognose della recente storia statunitense: il disastro di New Orleans sommersa dall’acqua nel 2005 e la sconcertante inettitudine dell’amministrazione Bush nell’affrontare quella tragedia. Ma l’uragano Isaac è anche, oggi, potente metafora politica. Di una politica debole, costretta a correre azzardi che la pongono in balia di eventi imprevedibili; di una politica fragile e screditata; di una politica che opera – anche nel caso dell’ultima superpotenza rimasta – entro perimetri nazionali dalla sovranità vieppiù limitata e sempre più deboli di fronte a interessi particolari, dinamiche sovranazionali e attori transnazionali e globali.

È una debolezza oggettiva e strutturale, questa, che limita la possibilità d’azione di chi governa, come vediamo oggi sui grandi temi che violano sovranità statuali a lungo indiscusse e assolute, dall’ambiente alla finanza ai diritti umani. Nel caso degli Stati Uniti è una debolezza però accentuata da una politica fattasi nel tempo polarizzata, divisiva, partigiana e, in ultimo, inefficace. Gli effetti sono trasversali e finiscono per danneggiare le stesse istituzioni e non solo chi temporaneamente vi risiede e le rappresenta. La popolarità di Obama è declinata rapidamente dopo i picchi delle settimane successive al suo insediamento e oggi è decisamente inferiore a quella di Bush nel 2004, di Clinton nel 1996 e di Reagan nel 1984, gli ultimi presidenti in carica a essere confermati a un secondo mandato. Il Congresso è però ancor meno amato: stando all’ultimo aggiornamento Gallup, solo il 10% ne approva l’operato, il minimo storico da quando esiste questo genere di rilevazioni (la media degli ultimi 40 anni è stata il 34%; da un anno a questa parte è stabilmente sotto il 20%). Romney, che non è mai stato né senatore né deputato, dovrebbe beneficiare di questo stato di cose. E invece fatica a convincere l’opinione pubblica, risulta assai poco apprezzato e solo la metà degli americani lo ritiene “onesto e degno di fiducia”.

Questa situazione pone problemi a entrambi i contendenti, esasperandone le rispettive debolezze. Per poter sperare di vincere Obama deve tornare a mobilitare segmenti dell’elettorato – gli under-30 in particolare – scontenti e disillusi dai suoi quattro anni di governo. Romney – che anche grazie alla scelta di Paul Ryan come candidato alla vice-presidenza sembra aver ricompattato la base repubblicana – ha bisogno d’intercettare un voto indipendente alienato dal radicale dogmatismo repubblicano e da posizioni davvero estreme sui temi etici, recepite nella piattaforma programmatica del partito che sarà approvata a Tampa.

E mentre mille interessi particolari si gettano nella contesa, finanziando senza limiti o scrupoli la campagna dei due contendenti con la ragionevole certezza di una loro riconoscenza futura, anche la meteorologia si mette di mezzo a rivelare come una politica fragile, debole e screditata possa diventare anche stupida, a partire dalle scelte più semplici, come i luoghi dove celebrare i propri incontri e i propri riti.

 

Il Mattino, 28 agosto 2012