Mario Del Pero

Il Medio Oriente e la campagna elettorale

La politica estera irrompe nella campagna presidenziale statunitense. E lo fa nel modo meno utile e produttivo:  con una crisi che, per la sua natura e le sue modalità, non aiuta un confronto rigoroso tra visioni e programmi alternativi. Le manifestazioni nelle piazze arabe, gli assalti alle rappresentanze diplomatiche, l’orribile assassinio dell’ambasciatore Stevens e dei suoi tre collaboratori generano, comprensibilmente, reazioni emotive e spaventate. Quando queste si uniscono a opportunismi elettorali, però, alimentano cortocircuiti pericolosi, finendo per gettare benzina sul fuoco e per banalizzare problemi complessi e di difficile risoluzione. Il confronto politico rischia così di farsi urlato e grossolano, come è capitato nella reazione – affrettata e poco responsabile – di Mitt Romney e del suo staff ai fatti di Benghazi e del Cairo con le accuse di debolezza e insufficiente patriottismo mosse all’amministrazione.

Entrambi i candidati si trovano però in difficoltà. Obama ha goduto, finora, di un chiaro vantaggio per quanto riguarda la politica estera. È considerato più affidabile e preparato, come spesso capita ai presidenti in carica; gli americani danno un giudizio sostanzialmente positivo del suo operato e, stando all’ultimo sondaggio Gallup, sulla politica estera lo preferiscono 54 a 40 a Romney, la cui propensione a fare propri slogan e programmi dei neoconservatori preoccupano e riportano alla mente gli anni di George Bush. Quello di Obama, però, è un vantaggio consolidato che una crisi come quella attuale rischia di mettere in discussione. Un’ulteriore intensificazione delle proteste ed eventuali nuove vittime statunitensi lo esporrebbero alle critiche di debolezza e pavidità che Romney e i repubblicani gli muovono da tempo. Soprattutto, torna al centro della scena il Medio Oriente,  il teatro dove minori sono stati i suoi successi e maggiore è la difficoltà degli Usa a imporre le proprie posizioni. Se c’era una cosa di cui il Presidente non aveva bisogno in questo momento, quella era una nuova crisi mediorientale, capace d’intrecciarsi con la delicatissima questione del nucleare iraniano e con la difficile relazione tra l’amministrazione statunitense e l’attuale governo israeliano.

Romney ha però fatto del suo meglio per sperperare l’opportunità elettorale che gli è stata data. La sua critica, precoce e strumentale, all’amministrazione è stata censurata da gran parte dei commentatori, inclusi alcuni di simpatie repubblicane. Ha evidenziato, la gaffe di Romney, cosa possa produrre un combinato disposto d’impreparazione, leggerezza e opportunismo. E ha spiegato perché sia forse conveniente per il ticket Romney-Ryan che non si parli troppo di politica estera. Troppo ideologico appare il loro messaggio; troppo vaghe e pericolose le loro proposte; troppo poco “presidenziali” i loro comportamenti. A un’America refrattaria a nuove crociate globali, critica verso gli anni di Bush e gli interventi in Iraq e Afghanistan, ostile a ulteriori aumenti della spesa militare, a un’America che in altre parole chiede una politica estera cauta e se necessario minimalista, la linea neoconservatrice di Romney piace molto poco.

Ovviamente, le cose possono cambiare. È l’auspicio dei fondamentalisti che, da una parte come dall’altra, spingono per esasperare la contrapposizione e per scatenare quello scontro di civiltà che si è finora riusciti ad evitare. Un’America ferita e spaventata potrebbe mettere da parte remore e timori, magari replicando le scelte sbagliate compiute dopo l’11 settembre. Una parte importante l’avranno ovviamente i nuovi governi arabi, a partire da quello egiziano, le cui posizioni e ambiguità di questi giorni non lasciano però ben sperare. Di certo, la “vacanza elettorale” nella quale gli Stati Uniti si trovano non aiuta. E richiederebbe quel surplus di responsabilità, cautela e attenzione che a Romney è appunto mancato.

Il Messaggero, 15 settembre 2012