Mario Del Pero

La Convention democratica

“State meglio oggi di quattro anni fa?”, chiedono Mitt Romney e Paul Ryan agli americani che andranno alle urne tra due mesi.  Un espediente retorico non particolarmente originale, quello dei candidati repubblicani, che riprende la famosa domanda posta da Reagan durante uno dei dibattiti televisivi con Carter nel 1980. Ma un espediente nondimeno efficace, che ha mandato temporaneamente in tilt i democratici, le cui risposte sono state confuse e contraddittorie, ed ha permesso di collegare l’Obama del 2012 al Carter del 1980, l’ultimo presidente democratico a non essere rieletto e il simbolo di uno dei più grandi fallimenti presidenziali della storia americana.

In realtà, quattro anni fa l’America non se la passava affatto bene. Era nel mezzo di una drammatica crisi economica, le banche fallivano, il Pil crollava, i mutui diventavano impossibili da pagare e la disoccupazione cresceva a vista d’occhio. Quattro anni più tardi Obama può rivendicare alcuni successi. Tra il 2009 e oggi il Pil è cresciuto a ritmi tra l’1.5 e il 3% annuo, nonostante la crisi dell’edilizia, settore cruciale per il boom del ventennio precedente, e l’ostruzionismo repubblicano, che ha reso impossibili politiche più ambiziose di sostegno alla domanda. La disoccupazione rimane alta, ma è comunque scesa dal 10.1% dell’ottobre 2009 all’attuale 8.2%. L’implosione del sistema bancario, potenzialmente catastrofica, è stata evitata. Riforme cruciali e senza precedenti, su tutte quella sanitaria, sono state approvate.

Eppure questi risultati non bastano. Sono bilanciati da conti pubblici disastrati, con un debito la cui crescita non ha conosciuto soluzioni di continuità negli anni di Bush e di Obama. Sono contraddetti da un senso di precarietà e di vulnerabilità che permane, a dispetto della ripresa. Sono qualificati da una iniqua distribuzione dei redditi.

Ecco perché alla convention democratica di Charlotte, in North Carolina, si celebrano i successi di Obama, come era ovvio che sia, ma ci si guarda bene dal rispondere direttamente alla domanda di Romney e Ryan. Gli Stati Uniti stanno per molti aspetti meglio oggi di quattro anni fa, ma la percezione non è spesso questa, le paure rimangono e le aspettative generate dall’elezione di Obama erano ben altre.

La convention democratica non serve quindi per riattivare lo spirito del 2008, che fu unico, che non è replicabile e che alimenterebbe solo la consapevolezza dello scarto tra ciò che si sognava allora e ciò che si ha oggi. A Charlotte i democratici si pongono quattro altri obiettivi, perseguiti sinora in modo molto disciplinato in quasi tutti gl’interventi.

Il primo è quello di mostrare un partito democratico capace di esprimere un’America che cambia, demograficamente e culturalmente. Un partito che è specchio credibile di un paese diverso, composito, in trasformazione. Non a caso, nella prima serata della convention, uno spazio centrale, oltre che a Michelle Obama, è stato dato a giovani leader come il sindaco ispanico di San Antonio, Julián Castro, quello afro-americano di Newark, Corey Booker, il governatore afro-americano del Massachusetts, Deval Patrick (autore di un intervento coinvolgente e trascinante).

Il secondo è di accentuare un tratto che ha caratterizzato i democratici negli ultimi decenni: il loro essere sempre più un “partito femminile”. Stando ai sondaggi di cui disponiamo, Obama preserva un importante vantaggio tra le donne, che è però diminuito rispetto al 2008. Per vincere in novembre deve riconquistare e mobilitare appieno quel voto, come rivelato da molti degli interventi alla convention, centrati su temi cruciali per le donne a partire dagli eguali diritti sul luogo di lavoro.

Il terzo obiettivo è sottrarre ai repubblicani il monopolio retorico del “sogno americano”: celebrare le opportunità che l’America offre a ogni suo cittadino, a prescindere dalle sue origini. È, questa, una celebrazione del singolo – della sua tenacia, del suo impegno, delle sue capacità – che la parabola di Obama, come del resto quella del giovane Julián Castro, testimoniano e simboleggiano. Ma di un singolo che sta in una comunità e che beneficia di precise politiche pubbliche, come non ci stanca di sottolineare a Charlotte.

Quarto e ultimo, l’attacco a Romney. Che è stato talora personale e finanche brutale, in particolare negli interventi di Patrick e del governatore del Maryland, Martin O’Malley, che ha denunciato i conti all’estero del candidato repubblicano (“i conti correnti in Svizzera”, ha affermato O’Malley, “non mettono i poliziotti nelle strade o gl’insegnanti nelle aule. I conti in Svizzera non hanno mai creato lavoro in America”). Perché alla fine la partita si gioca anche, se non primariamente, sui candidati: sulla loro persona. E oggi, a dispetto di tutto, è proprio questa la risorsa più importante di cui dispongono i democratici: l’impopolarità di Romney, la sua debolezza e la pochissima fiducia riposta nel candidato repubblicano da un’America convinta, a torto o a ragione, di non star particolarmente meglio di quattro anni fa.

Il Mattino, 6 settembre 2012