Mario Del Pero

Le due convention

Da tempo le convention presidenziali hanno perduto la loro funzione originaria. Non sono più le arene, fumose e caotiche, dove i delegati sceglievano i candidati, non di rado dopo scambi, baratti, sorprese e scorrettezze. Sono mega-spot elettorali, dal copione già scritto e le coreografie hollywoodiane. Spot che offrono, ai candidati, una possibilità unica di parlare all’America. L’audience televisiva dei due interventi di Romney a Tampa e Obama a Charlotte è stata di 30/35 milioni di spettatori: un dato straordinario per la politica oggi. Straordinario, perché quella stessa politica appare debole e screditata di fronte a un’opinione pubblica stanca, arrabbiata e in sofferenza, che verso il mondo politico nutre poche illusioni ed esprime molta insofferenza.

Quando si parla di elezioni americane si compie spesso l’errore di dire che queste si vincono al centro, conquistando il voto, cruciale, degli indipendenti non schierati. Ciò è falso per due ragioni. La prima è che questo elettorato indipendente, pur non registrato come repubblicano o democratico, non è affatto, e necessariamente, centrista: ha posizioni molto nette su questioni specifiche e controverse – tasse, aborto, ambiente – cui si deve dare risposta. La seconda è che, come hanno dimostrato le ultime tornate elettorali, per vincere si deve prima di tutto mobilitare appieno il proprio elettorato, convincendolo a recarsi in massa alle urne.

Le due convention proprio a questo sono servite: come chiamata alle armi di due basi elettorali, quella repubblicana e quella democratica, non pienamente convinte dei propri candidati presidenti. Romney non è mai riuscito a generare l’entusiasmo dei conservatori: per il suo passato moderato, il suo opportunismo politico, il suo poco carisma, la sua fede mormone. Obama quell’entusiasmo lo ha in buona misura perduto nei quattro anni di governo: per lo scarto tra aspettative e risultati, la sua leadership debole, i suoi frequenti compromessi al ribasso.

A un primo sguardo le due convention hanno raggiunto questo obiettivo. Aiutato dalla scelta del candidato vice-presidente, il deputato del Wisconsin Paul Ryan, Romney sembra avere finalmente convinto i repubblicani. A Charlotte si è respirato un entusiasmo che ai democratici mancava da anni.

Questa reciproca mobilitazione sembra però essere stata raggiunta grazie alla debolezza della controparte più che alla forza propria. Da parte repubblicana si è puntato molto sugli insuccessi di Obama e su un’economia che, pur crescendo più di quella europea, al ritmo del 2/2.5% annuo, non è riuscita a portare la disoccupazione sotto la soglia dell’8%. I democratici hanno sì rivendicato i risultati di questi quattro anni di governo, ma hanno soprattutto cercato di sfruttare le tante contraddizioni di un partito repubblicano che – su tasse, aborto, immigrazione, diritti civili – si è spostato a destra come mai era avvenuto nella sua storia e riesce sempre meno a intercettare segmenti cruciali dell’elettorato: minoranza, giovani e donne in particolare.

Gli effetti delle due convention sono difficili da misurare. Secondo i sondaggi, il rimbalzo positivo – in termini di consenso e intenzioni di voto – è stato maggiore per i democratici. Ma ciò è stato subito attenuato da nuovi dati economici, non particolarmente positivi, con l’economia americana capace di aggiungere solo 96mila posti di lavoro nel mese di agosto. Per quanto importante, non sarà però solo l’economia a determinare il risultato di novembre. Ed è su questo che si fondano oggi le speranze di Obama di essere riconfermato alla Casa Bianca.

Giornale di Brescia, 9 settembre 2012