Mario Del Pero

Osama Bin Laden è morto e la General Motors è viva

“Osama Bin Laden è morto e la General Motors è viva”, ha proclamato il vice-presidente Joe Biden nel suo appassionato intervento alla convention democratica di Charlotte. Dopo qualche giorno di confusione e smarrimento, i democratici hanno finalmente risposto alla domanda retorica posta da Romney (citando il Reagan del 1980) se gli americani stiano meglio oggi di quattro anni fa. A dispetto di tutto, l’America – dicono Obama e i suoi – sta meglio che nel 2008. È stato Bill Clinton ad affermarlo con forza, in un intervento straordinario per la capacità di combinare potenza retorica e densità d’analisi.

Nei tre giorni della convention, Clinton ha guidato una legione d’interventi mossi, in modo sorprendentemente disciplinato, da un unico, fondamentale obiettivo, quello di mettere Obama al centro della scena. Celebrando i successi, rilevanti e spesso negletti, della sua presidenza (Clinton e, sulla politica estera, il senatore John Kerry), la sua leadership (Biden), la sua umanità (Michelle Obama). Il contrasto con la convention repubblicana di Tampa – con l’intervento auto-promozionale del governatore del New Jersey, Chris Christie e lo sconclusionato monologo di Clint Eastwood – è stato da questo punto di vista significativo ed emblematico.

Rivendicare le conquiste di quattro anni sofferti e difficili – con un tasso di disoccupazione stabilmente sopra l’8%, redditi medi calati del 4/5 % e un tasso di povertà del 15%, il più alto in un ventennio – è però alquanto problematico. Importanti successi sono stati ottenuti, ma è evidente, e quasi macroscopico, lo scarto tra le aspettative e i risultati, ciò che si prometteva quattro anni fa e ciò che si ha oggi. L’intervento umile, quasi di basso profilo, con cui Obama ha chiuso la convention lo ha mostrato bene. “Sono cambiati i tempi e sono cambiato io”, ha affermato Obama, lasciando per un istante i delegati disorientati e perplessi. La retorica della trasformazione e del cambiamento è stata riposta nel cassetto, assieme alle infinite possibilità del “Yes We Can” del 2008. La parola d’ordine è stata quella di guardare innanzi, al futuro, per cercare di realizzare quanto oggi appare ancora parziale e incompiuto.

Un’elezione trasformata in un referendum sui quattro anni di Obama non è però qualcosa che i democratici possono permettersi. Porterebbe quasi certamente a una vittoria di Romney. A Charlotte non ci si è pertanto limitati a rivendicare e magnificare i successi del Presidente. Farlo è stato in una certa misura strumentale al raggiungimento di altri due obiettivi. Il primo era di mettere Obama, la sua persona prima e ancor più delle sue politiche, al centro della scena. Perché Obama rimane oggi assai più popolare di Romney (54  a 31 stando agli ultimi sondaggi che misurano l’apprezzamento dei candidati): trasmette maggiore fiducia e umanità.

Il secondo obiettivo era quello di sottrarre ai repubblicani il manto di un patriottismo ostentato con forza, e talora grossolanità, alla convention di Tampa. Lo si è fatto con modalità che sono parse riportare indietro le lancette del discorso pubblico: celebrando, dopo un trentennio di sbronza finanziaria e globalizzatrice, non solo la maggiore indipendenza energetica, ma anche i successi del settore manifatturiero, del “Made in America”, e la ripresa delle grandi case automobilistiche salvate da Obama nel 2009 con un intervento pubblico che Romney criticò severamente. È chiaro che ciò promette un preciso dividendo elettorale in stati chiave come l’Ohio e il Michigan, dove maggiore è stato l’impatto occupazionale del salvataggio di Chrysler e General Motors. Ma la svolta, discorsiva e politica, è nondimeno importante e rivelatrice.

Si aprono ora gli ultimi due mesi della campagna. Le convention sono servite a mobilitare appieno i propri elettorati ancor prima che a convincere quello, importante ma assai circoscritto, degli indecisi. Perché le elezioni si vincono anche e soprattutto portando i propri simpatizzanti a votare, come Romney a Tampa e Obama a Charlotte hanno dimostrato di sapere bene.

Il Messaggero, 8 settembre 2012