Mario Del Pero

Il primo dibattito

Il primo dibattito televisivo lo ha vinto, per distacco, Mitt Romney. O, forse, è più appropriato dire che lo ha perso, male, Barack Obama.

Romney arrivava al dibattito dopo un mese assai difficile. Il diverso impatto delle convention dei due partiti, la scelta, rischiosa e probabilmente controproducente, di Paul Ryan come suo vice, alcune gaffe e un’efficace azione della macchina obamiana lo avevano messo sulla difensiva, modificando i termini del confronto e aprendo un piccolo, ma significativo, scarto nei sondaggi in alcuni stati cruciali, come l’Ohio e la Florida.

Romney aveva bisogno di un successo che alterasse questa dinamica. E un successo ha ottenuto. È arrivato al dibattito più preparato e allenato. È stato decisamente più incisivo, incalzando a più riprese il Presidente. Lo ha fatto, però, senza esagerare in aggressività e, soprattutto, riposizionandosi al centro, abbandonando alcuni eccessi dei mesi precedenti, presentandosi come campione di un ceto medio in difficoltà e negando di voler concedere ulteriori vantaggi fiscali ai percettori dei redditi più alti, quelli che meno hanno sofferto della crisi. È riuscito, infine, Romney a risultare simultaneamente moderato e appassionato, competente ed empatico.

Si tratta di un risultato non da poco, per un candidato noto per le sue deficienze comunicative, ma che già durante le primarie aveva dimostrato di essere cresciuto molto, moltissimo, rispetto alla sua fallimentare campagna del 2008.

Per ottenere questo risultato, Romney ha dovuto modificare o abbandonare alcune delle parole d’ordine della sua campagna elettorale, ripudiando quella “svolta a destra” utile per mobilitare il proprio elettorato, ma perdente in chiave elettorale. Ha distorto, in modo talora assai spregiudicato, fatti e cifre. Più di tutto, è stato estremamente vago ed evasivo, rimandando dettagli e precisazioni al momento in cui, divenuto Presidente, negozierà col Congresso le proprie proposte. Ha ripetuto, ad esempio, la convinzione di potere compensare la riduzione del gettito prodotta dai tagli alle tasse con l’aumento della base imponibile, la crescita della ricchezza tassabile e, soprattutto, l’eliminazione di vari sgravi e agevolazioni fiscali. Ma non ha nominato uno di questi tagli, che costituiscono premessa indispensabile di un programma che quasi tutti gli economisti giudicano comunque impraticabile e destinato, laddove applicato, a far crescere il deficit.

Con un conduttore, il buon Jim Lehrer, praticamente assente e in balia della discussione, spettava a Obama rilevare queste contraddizioni e contro-attaccare. Ma Obama ha assistito, passivo, a quello che è divenuto quasi un one-man-show. Lo ha fatto, par di capire, per scelta e strategia. Non voleva trasformare la discussione in un faccia a faccia che ne avrebbe diminuito lo status presidenziale. Ha pensato, Obama, di usare invece l’occasione come un pulpito dal quale parlare direttamente all’America, evitando di confrontarsi con l’avversario. Ma lo ha fatto anche per stanchezza e impreparazione, o almeno questa è stata l’impressione che si è avuto assistendo al confronto. È uno dei pochi vantaggi che lo sfidante ha nelle campagne presidenzial, quello di aver molto più tempo rispetto ai presidenti in carica per preparare i dibattiti televisivi. E questo scarto lo si è visto tutto. L’approssimazione di Obama è emersa in modo eclatante quando, al termine, ha addirittura improvvisato l’appello finale agli elettori. È difficile ricordare in tempi recenti una performance così modesta di un presidente. Forse solo George Bush nel 2004 fece peggio.

Certo Obama non ha commesso gaffe. E negli anni questi dibattiti hanno spostato sempre meno voti, con le due basi elettorali ormai consolidate e polarizzate.  Nondimeno, la discussione di ieri sera ha interrotto una dinamica che sembrava inarrestabile, alterato la narrazione pubblica della sfida, rilanciato le possibilità di Romney e contribuito poco o nulla a mobilitare quell’elettorato, in primis giovane, di cui Obama ha invece assoluto bisogno.

Il Mattino/Il Messaggero, 5 ottobre 2012