Mario Del Pero

Il Terzo Dibattito

No, non è stato davvero un gran dibattito, questo ultimo confronto televisivo tra Obama e Romney sulla politica estera. La discussione si è sviluppata in modo spesso vago e incoerente. Obama è stato talora approssimativo, nei contenuti così come nella gestione del contraddittorio, dove in un paio di occasioni a lui chiaramente favorevoli ha immotivatamente spostato il dibattito sull’economia e su questioni interne, rispetto alle quali è chiaramente in difficoltà. Romney, da parte sua, è parso davvero camminare sulle uova, come uno studente che ha cercato di memorizzare tutto nel minor tempo possibile prima di un esame cruciale.

Dentro un confronto dal livello piuttosto basso, i due candidati si sono trovati in più occasioni a condividere le stesse posizioni: sulla opportunità di evitare un coinvolgimento maggiore in Siria, di procedere nel disimpegno previsto in Afghanistan, di mantenere la linea della fermezza assunta nei confronti di Teheran. In parte ciò è inevitabile: la politica estera offre minori possibilità di distinguersi senza apparire eccessivamente radicali. In parte, però, la convergenza è stata determinata dall’ennesimo cambiamento di rotta di Romney, che ha abbandonato la retorica roboante e neoconservatrice dei mesi passati, assumendo posizioni moderate molto simili a quelle di Obama e scavalcandolo addirittura a sinistra quando ha sottolineato, con toni tipicamente liberal, il legame tra povertà e radicalismo politico e la conseguente necessità, in Medio Oriente, di aumentare l’impegno statunitense nelle politiche a sostegno dello sviluppo e della crescita economica. Anche sulla politica estera, in altre parole, il Romney televisivo dei dibattiti ha ripetutamente contraddetto e smentito il Romney della campagna elettorale e delle primarie. Mutamenti di linea, anche repentini, sono normali e comprensibili nella politica e nei confronti elettorali; il caso di Romney 2012 si presenta però davvero come unico negli annali della politica statunitense e sarà quasi certamente oggetto di studio negli anni a venire, a maggior ragione in caso di sua elezione.

Il dibattito ha evidenziato anche lo squilibrio nelle attenzioni geopolitiche (e mediatiche) dell’America oggi. Di fatto si è parlato quasi esclusivamente di Medio Oriente, senza però che si menzionasse una volta la questione palestinese. Come quasi mai sono state menzionate l’Europa e l’America Latina, se non per un breve cenno di Romney alla possibilità offerte dal commercio con la seconda. Di Messico, Centro America e immigrazione non si è parlato, e pure su quello Obama ha perso una opportunità. Anche la Cina è comparsa poco e solo verso la fine della discussione. Si è discusso, sì, del rischio di un declino dell’influenza e della leadership mondiale degli Stati Uniti, senza però riferimento alcuno al mutamento degli equilibri globali, all’ascesa di nuovi soggetti, alle forme nuove dell’interdipendenza e della globalizzazione.

Obama, come indicano i sondaggi, ha chiaramente vinto. Difficilmente però questo dibattito muterà la rappresentazione della competizione, alterata in modo decisivo dal primo confronto televisivo, che riaprì una partita che allora pareva quasi chiusa. Romney è sopravvissuto anche a questo ultimo passaggio, su un tema, le relazioni internazionali, nella quale la sua fragilità era nota e, ieri, chiaramente palpabile. Esce dal terzo confronto con una sufficienza stiracchiata e lo sguardo, tumido e sollevato, di chi sa di essere riuscito anche questa volta a cavarsela.

Terminati i dibattiti, l’attenzione si sposta ora su quei pochi stati ancora in bilico che risulteranno decisivi il 6 novembre, in particolare la Florida, la Virginia, l’Ohio e il Colorado. La mappa elettorale favorisce ancora Obama e salvo grandi sorprese – una sconfitta del presidente in Michigan e in Pennsylvania – Romney sarà costretto a vincere in tutti questi stati per conquistare la Casa Bianca. Ma di sorprese ve ne sono state molte e lo stato di virtuale pareggio nei sondaggi nazionali ci dice che oggi tutto può davvero accadere.

Il Mattino/Il Messaggero, 24 ottobre 2012