Mario Del Pero

Le sfide di Obama

È una vittoria più larga del previsto, quella di Obama. Nel collegio elettorale così come nel voto popolare, dove il Presidente conquista ben due milioni e mezzo di voti in più rispetto a Romney. Vi sarà modo e tempo di esaminare il voto, disaggregandone le varie componenti. I dati degli exiti poll sono però indicativi: del perché Obama abbia vinto; e del perché i repubblicani abbiano perso e, in assenza di radicali ripensamenti del loro approccio e della loro visione, siano destinati a continuare a perdere, quantomeno su scala nazionale. Il voto bianco va a Romney (58 a 40) così come quello maschile (52 a 48), ma Obama stravince tra donne (55 a 43), minoranze (70 a 30 quella ispanica) e giovani (60 a 36 tra gli under-30, a dispetto di un marcato calo dell’entusiasmo nei confronti del Presidente). Varie iniziative referendarie statali confermano il cambiamento in atto nel paese, approvando il pieno riconoscimento legale di unioni tra coppie dello stesso sesso. I candidati più radicali della destra repubblicana sono sconfitti, talora pesantemente, anche in stati tradizionalmente conservatori, come l’Indiana e il Missouri. Con il suo radicalismo – sui temi etici così me sull’immigrazione – il partito repubblicano si chiude in un recinto che le trasformazioni culturali e demografiche rendono (e renderanno) sempre più angusto e circoscritto. Rischia di confinarsi in una posizione di strutturale ancorché orgogliosa minoranza, come riconosciuto da alcuni dei suoi leader più avvertiti, tra i quali l’ex governatore della Florida Jeb Bush e l’attuale governatore del New Jersey Chris Christie.

I democratici preservano, e anzi consolidano, la loro maggioranza al Senato, un dato inimmaginabile solo poche settimane fa. Elizabeth Warren, la professoressa di Harvard paladina dei diritti dei consumatori, conquista il seggio senatoriale in Massachusetts che fu di Ted Kennedy e si candida a divenire figura importante del partito democratico e punto di riferimento nazionale dei liberal. I repubblicani però continuano a controllare la Camera dei Rappresentanti, che riconquistarono alle elezioni di mid-term nel 2010, e hanno i numeri per paralizzare il Senato, come hanno spesso fatto negli ultimi quattro anni. Ed è da questo aspetto, la persistenza di una condizione di governo diviso e la capacità repubblicana di condizionare le scelte dell’amministrazione, che è utile partire per capire quali siano le sfide e, anche, le possibilità di Obama. Che sarà chiamato a bilanciare le attese, e le richieste della sua base, con i vincoli che questa condizione di governo diviso necessariamente impone. E che cercherà certamente di promuovere alcune riforme destinate, assieme a quella sanitaria, a lasciare il suo segno su questa fase della storia degli Stati Uniti.

Quali sono questi ambiti d’azione e quali le possibilità di Obama di usare il suo secondo mandato in modo più incisivo di quanto non sia avvenuto tra il 2009 e oggi? Ne possiamo individuare quattro.

Per quanto riguarda le riforme, è chiaro che i diritti civili, intesi in un’accezione ancor più ampia, risulteranno centrali. Ciò vorrà dire un rilancio a livello federale di quell’onda lunga di affermazione e ampliamento dei diritti degli omosessuali che risultati referendari di ieri confermano e che i sondaggi legittimano. Soprattutto, vorrà dire promuovere una riforma onnicomprensiva delle politiche in materie d’immigrazione, che sani almeno in parte la condizione dei milioni d’immigrati illegali che risiedono nel paese. Una riforma necessaria, invocata da un pezzo dell’elettorato, quello ispanico, sempre più importante e destinata a garantire un preciso dividendo politico ed elettorale, a maggior ragione se i repubblicani vi si opporranno come è avvenuto fino ad oggi.

Il secondo terreno è quello fiscale. Obama rilancerà la sua proposta di riportare l’aliquota sui redditi maggiori ai livelli pre-2001 (il 39.6, contro l’attuale 35). Su questo ha avuto ieri un chiaro mandato; è però un ambito straordinariamente difficile, rispetto al quale dovrà fronteggiare l’implacabile opposizione dell’ala più radicale del partito repubblicano, guidata ormai dal candidato vice-presidente (e deputato del Wisconsin) Paul Ryan. Ridefinire anche solo in minima misura la politica fiscale imporrà pertanto compromessi con la controparte, impegni precisi a un maggiore controllo della spesa pubblica e, anche, l’aiuto di una leadership repubblicana maggiormente disposta a controllare le sue frange più radicali di quanto non sia stata nell’ultimo biennio.

Il terzo ambito è, ovviamente, quello della politica estera e di sicurezza. Rispetto al quale è più difficile fare delle previsioni, essendo esso reattivo a eventi e dinamiche che gli Usa possono controllare solo in parte. È però improbabile vi siano delle rivoluzioni ed è chiaro che Obama cercherà di seguire la strada tracciata nel suo primo mandato, peraltro molto apprezzata dall’opinione pubblica: multilateralismo, retorico e laddove possibile pratico; aggressiva azione anti-terroristica, anche a costo di scontentare la sinistra del suo partito; sanzioni e collaborazione internazionale nella gestione del dossier nucleare iraniano; mantenimento di un livello di bassa tensione con la Cina, convincendola però a continuare nella sua graduale rivalutazione della valuta e nell’abbandono di pratiche commerciali scorrette. Sul terreno della politica estera, Obama avrà però maggiore libertà d’azione interna, per le sue politiche – in larga misura moderate e bipartisan – e per quella che è la condizione del Presidente e del Comandante in Capo. Non sono quindi da escludere da subito iniziative più forti e di rottura, dall’ampio valore simbolico, come potrebbe essere un rilancio dei negoziati tra israeliani e palestinesi.

Quarto e ultimo, le nomine giudiziarie e quelle, assai probabili, alla Corte Suprema. Che Obama potrebbe usare per soddisfare, ed eventualmente placare, la sua base elettorale, fino a ieri terrorizzata dalla possibilità che una presidenza Romney alterasse il fragile equilibrio della corte a vantaggio dei conservatori, permettendoli di rovesciare alcune sentenze cruciali, su tutte la Roe vs. Wade che legalizza l’aborto nel primo trimestre di gravidanza.

Sono queste le sfide di Obama oggi. Che ha la possibilità di lasciare un segno ancor maggiore nella storia; che dovrà certamente fare tesoro delle lezioni, e dei tanti errori, del suo primo mandato; ma che dovrà anche sperare in una controparte più moderata e responsabile di quanto non sia stata negli ultimi quattro anni.

Il Mattino/Il Messaggero, 8 novembre 2012