Mario Del Pero

Scandali e generali

Lo scandalo Petraeus, il direttore della CIA costretto alle dimissioni dopo la rivelazione di una sua relazione extra-coniugale, si allarga ulteriormente e sembra ora coinvolgere anche il generale John Allen, il comandante delle truppe Nato in Afghanistan, protagonista a sua volta di una fitta corrispondenza e-mail con una delle donne coinvolte nella vicenda. I dettagli si fanno sempre più sordidi e pruriginosi: agenti dell’FBI che mandano in giro proprie foto a torso nudo; giovani donne che si contendono integerrimi eroi di guerra; eroi di guerra che abbassano le difese e rinunciano alle più elementari misure di sicurezza pur di intrattenere relazioni con le giovani donne di cui sopra.

Il paese osserva sbigottito. Non per perbenismo puritano, come qualcuno superficialmente si ostina a dire. Quello se ne è andato da tempo, almeno dallo scandalo Lewinsky, e oggi come oggi ostentare fedeltà coniugale non è più condizione indispensabile a una carriera politica. Ciò che disorienta è che lo scandalo va a colpire una delle poche icone pubbliche rimaste: le forze armate e il suo volto apparentemente più nobile, il mite generale con un dottorato a Princeton, sempre pronto a sacrificarsi per salvare il paese e realizzare missioni impossibili come pacificare l’Iraq o rendere più efficiente la CIA.

Un paese che non vuol fare, né vedere, la guerra e le sue conseguenze ha da tempo idealizzato chi la guerra la conduce e, appunto, la tiene nascosta e invisibile. Quegli eroici militari costretti a turnazioni frequenti sui campi di battaglia, vittime delle scelte scellerate, dell’inettitudine e degli opportunismi della politica. Quei militari volontari che permettono a milioni di famiglie americane di non mandare i propri figli al fronte e di non vederli morire per guerre inutili o sbagliate. Quei militari che hanno un posto riservato sulle tribune degli stadi di football, corsie preferenziali all’imbarco degli aerei, striscioni che li celebrano all’ingresso di ogni paesino, ma che sono poi sono sottopagati, privi di adeguata assistenza medica e psicologica, e inclini al suicidio a tassi di molto superiori rispetto al passato.

Di questo mondo e delle sue istituzioni – un mondo migliore e più nobile  – Petraeus era diventato il simbolo e, appunto, l’icona. Un’icona bipartisan, pronto a mettersi al servizio di presidenti repubblicani e democratici, di Bush come di Obama. E un’icona molto ambiziosa, disposta ad accettare l’incarico di direttore della CIA e, si dice, prossimo al grande salto nella politica, come altri generali prima di lui.

Per questo l’opinione pubblica appare sgomenta e, dalle prime reazioni, in larga parte contraria alle dimissioni di Petraeus. Perché in una fase di disillusione verso la politica e le stesse istituzioni, il mondo militare pareva ergersi come qualcosa di diverso e più alto. Talmente diverso, che i suoi esponenti, come appunto Petraeus, credevano addirittura di poter creare appositi account gmail dai quali inviare e-mail bollenti alle proprie amanti. Ed è questo senso d’impunità e diversità, oltre alla leggerezza e superficialità, che colpisce in tutta questa vicenda. Un ex militare, ora docente di studi internazionali alla Boston University, Andrew Bacevich, che in Iraq ha perso un figlio, ha più volte sottolineato i rischi di tutto ciò. Di un mondo militare che si rappresenta e si percepisce come qualcosa di altro e superiore; di un mondo politico che fa un uso scellerato e improprio dello strumento militare. Nel suo piccolo la vicenda Petraeus sembra dare ragione a queste preoccupazioni. E forse qualche effetto benefico potrà anche averlo.

Il Giornale di Brescia, 14 novembre 2012