Mario Del Pero

Fiscal Cliff e Radicalismi

Senza un accordo dell’ultima ora, che ora appare però più probabile, scatteranno i tagli lineari di spesa concordati un anno e mezzo fa e le imposte sui redditi torneranno al livello pre-2001, con fasce di aliquote tra il 15 e il 39.6 %, contro gli attuali 10-35%. Al contempo termineranno quei provvedimenti tampone introdotti dall’amministrazione Obama per attutire gli effetti della crisi. Circa tre milioni di persone perderanno i sussidi di disoccupazione già prorogati in passato e tornerà a salire la quota in busta paga destinata ai contributi: un salasso calcolato in circa mille dollari annui per famiglie con redditi medi e medio-bassi.

Gli effetti benefici su conti pubblici in difficoltà, simboleggiati da un debito cresciuto esponenzialmente nell’ultimo quadriennio, sarebbero immediati. Ma immediati sarebbero anche gli effetti recessivi provocati da questo combinato disposto di tagli e imposte e, con essi, le sofferenze di molti americani, con un tasso di disoccupazione destinato a crescere e in assenza di alcune vitali forme di protezione sociali istituite negli ultimi anni.

Tutti pensavano, e auspicavano, che il chiaro successo elettorale di Obama in novembre potesse facilitare il raggiungimento di un accordo. La posizione del presidente, favorevole a prorogare i tagli di Bush solo per i redditi familiari inferiori ai 250mila dollari, era stata legittimata dal voto. Le componenti più ideologiche della destra repubblicana erano uscite pesantemente sconfitte alle urne. I sondaggi post-elettorali indicavano un ampio sostegno nel paese all’idea di aumentare l’imposizione fiscale sui redditi più alti (nell’ultimo sondaggio Gallup il 54% giudica positivamente l’operato di Obama nei negoziati, mentre solo il 26% dà un giudizio positivo del comportamento dei repubblicani al Congresso).

Un accordo appariva possibile anche per la rinnovata disponibilità al compromesso di Obama, che nelle settimane scorse ha nuovamente indisposto la base liberal avvicinandosi alle posizioni repubblicane, alzando a 400mila dollari la soglia sotto la quale sarebbero rimasti in vigore i tagli di Bush e accettando meccanismi di contenimento dei costi di alcuni programmi, come quello pensionistico, il Social Security.

Invece il grande accordo non è stato raggiunto. La leadership repubblicana alla Camera dei rappresentanti ha subito un’umiliante sconfitta quando la base si è ribellata alla sola idea di tornare alle imposte pre-2001 per i redditi superiori al milione di dollari, lo 0.2% dei contribuenti oggi. Imposte peraltro storicamente assai basse, se pensiamo che l’aliquota sui redditi più alti era del 50% nel 1986 e addirittura del 91% nel 1963.

Vari elementi concorrono a questa rigidità repubblicana: la diminuzione di collegi elettorali davvero in bilico e quindi i minori incentivi al compromesso; l’assenza di una leadership forte, al Congresso e nel paese; più di tutto, un’ostilità pregiudiziale ad aumenti delle tasse che almeno dai primi anni Novanta sembra costituire il principale, se non unico, collante ideologico del fronte conservatore.

Svanito un accordo generale, in queste ultime, frenetiche ore di discussione si discutono ipotesi minime, in particolare il temporaneo rinnovo delle riduzioni sulle imposte per i redditi inferiori ai 250mila dollari (che potrebbe però salire a 400mila) e, contestualmente, la proroga dei sussidi di disoccupazione e il congelamento dei tagli. Lasciando poi al nuovo Congresso, che s’insedierà dopo il 2 gennaio, il compito di riaprire la discussione e d’immaginare un piano di lungo periodo che bilanci gli imperativi del sostegno alla crescita con la necessità di ridurre deficit e debito.

La vicenda rivela però una volta ancora la crisi del Partito Repubblicano, la cui causa primaria è una radicalizzazione che i vertici del partito temono, blandiscono e non riescono a controllare. Ne consegue un deficit ormai palese di cultura di governo e, nel caso specifico, della consapevolezza che le sconfitte elettorali hanno delle conseguenze. E che l’America post-novembre 2012 è un’America inevitabilmente diversa: per il mandato elettorale ottenuto da Obama col voto e per il ripudio, inequivoco, delle posizioni estreme della destra repubblicana.

Il Messaggero, 30 dicembre 2012