Mario Del Pero

Obama e il Fiscal Cliff

Quando il decisore è debole e titubante, il confronto politico polarizzato e l’opposizione ideologica e ostruzionista, le scelte spesso non vengono compiute e la risoluzione dei problemi risulta semplicemente posticipata o convenientemente affidata a processi automatici e sostanzialmente a-politici. È quanto accaduto più di un anno fa, quando Obama e i repubblicani non trovarono un accordo per ridurre il  debito e mettere ordine nei conti pubblici disastrati, la supercommissione incaricata di elaborare un piano non riuscì nel suo intento e, da accordi precedenti, e si accettò che a inizio 2013 sarebbero scattati automaticamente tagli lineari di spesa, il ritorno alle aliquote dell’era Clinton, la cancellazione dei sussidi di disoccupazione e delle riduzioni sui contributi in busta paga introdotti da Obama.

Laddove scattassero, i tagli permetterebbero un risparmio di circa 500 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2012-13. L’aumento del gettito fiscale e la diminuzione della spesa pubblica, sia quella destinata al welfare sia quella per la difesa, avrebbero effetti immediati e benefici su deficit e debito. Altrettanto immediato, e potenzialmente devastante, sarebbe però l’impatto sulla flebile ripresa economica. Privata di questi stimoli e in balia di una rigida austerity, l’economia statunitense quasi certamente precipiterebbe in una nuova recessione. I dati variano a seconda degli studi, ma vi sono pochi dubbi al riguardo: secondo le autorevoli stime del Congressional Budget Office, la contrazione sarebbe dello 0.5% annuo e il tasso di disoccupazione tornerebbe a superare il 9% (contro l’attuale 7.7%).

È un esito, questo, che tutti vogliono evitare. Né Obama né i repubblicani, che controllano la camera dei Rappresentanti, sono però disposti a fare troppe concessioni alla controparte, uscendo dalla discussione come parte sconfitta. Obama chiede l’aumento delle tasse sui redditi individuali superiori ai 200mila dollari e su quelli familiari superiori ai 250mila dollari, ritornando così al livello di tassazione pre-2001 (il 39.6% contro l’attuale 35%). Ed è disponibile ad alcuni tagli al programma di assistenza medica agli anziani, Medicare, i cui costi sono negli anni andati fuori controllo (oggi Medicare assorbe da solo quasi il 4% del Pil). I repubblicani non vogliono questo aumento della pressione fiscale sui redditi maggiori e chiedono misure più incisive, invero draconiane, di riduzione della spesa pubblica.

Il paese è, al momento, largamente schierato con il Presidente. Lo ha mostrato il voto di novembre. Lo rivelano quotidianamente i sondaggi, che evidenziano un ampio consenso (circa il 75%) sulla necessità di alzare il livello di tassazioni su redditi e ricchezze maggiori e una generale avversione alle proposte repubblicane, in particolare i tagli a Medicare e alle pensioni.

Come già nel biennio 2010-12, il fronte repubblicano si rivela però compatto e unito. Una combinazione di coesione politica e radicalità ideologica, quella repubblicana, che rende difficile il negoziato e incerto il suo esito, a dispetto della chiara vittoria democratica di novembre. Anche perché gli avversari di Obama hanno molte frecce al loro arco e hanno già espresso la loro disponibilità a farne uso, minacciando di non approvare l’estensione dei sussidi di disoccupazione e di bloccare qualsiasi provvedimento di stimolo all’economia varato dall’amministrazione. Soprattutto, e come già nel 2011, i repubblicani sembrano essere pronti a riaprire la battaglia sull’aumento del debito pubblico, che dovrà essere autorizzato dal Congresso a cavallo tra gennaio e febbraio 2013, e che intendono utilizzare come arma di scambio nell’attuale discussione o come rappresaglia per eventuali azioni unilaterali di Obama e dell’amministrazione.

È un’impasse, quella in cui si trovano gli Stati Uniti, che può essere sbloccata solo da un maggior decisionismo di un Presidente finora troppo timido. Un Presidente che dispone oggi di un capitale politico rilevante e che deve dimostrare di avere imparato dagli errori compiuti durante il suo primo mandato.

 

Il Mattino, 9 dicembre 2012