Mario Del Pero

Obama e lo stato dell’Unione

Il discorso sullo stato dell’Unione più liberal dai tempi di Lyndon  Johnson, il presidente che a metà degli anni Sessanta promosse un’ambiziosa agenda riformatrice i cui pilastri ancor oggi sopravvivono. Questa è la caratterizzazione che molti commentatori, conservatori e non solo, hanno fatto del discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Obama martedì di fronte al Congresso. Si tratta di un’esagerazione. Di discorsi ambiziosamente liberal, più di quello di Obama, se ne ricordano molti nell’ultimo mezzo secolo (quelli di Clinton del 1998 e 1999 tornano immediatamente alla mente).

L’intervento di Obama è però stato forte e in asse con il suo inaugural di qualche settimana fa. Sa, il presidente, di avere una finestra di opportunità unica. Sa che nei 21 mesi tra oggi e le elezioni di medio termine del 2014 avrà la possibilità di promuovere politiche che qualificheranno la sua presidenza, definiranno il suo lascito e, con esso, il suo posto nella storia del paese. Sa, infine, Obama di poter sfruttare appieno il mandato ottenuto con la rielezione, la popolarità cresciuta e, anche, la disarmante pochezza dei suoi avversari, schiavi di un dogmatismo rigido e ottuso, espresso anche nella risposta al discorso presidenziale del senatore della Florida Marco Rubio, l’astro nascente del partito.

Al contempo, il discorso di Obama, e le reazioni ad esso, ci rivelano ancora una volta quanto egemone si sia fatto negli anni un discorso politico e pubblico centrato su basse tasse, governo minimo e implicita accettazione di forme strutturali di diseguaglianza. E perché si possano caratterizzare come estreme e “quasi socialiste” proposte in realtà modeste e sensate. Prendiamo uno dei temi più rilevanti (e, anche, controversi) discussi ieri dal Presidente: la retribuzione del lavoro.

A sorpresa, Obama ha rispolverato la questione e chiesto di portare il salario minimo dagli attuali 7.25 a 9 dollari l’ora. Nel farlo, è indietreggiato rispetto ai 9.50 dollari proposti durante la campagna elettorale del 2008 (corrispondenti, se indicizzati, a più di 10 dollari odierni). Ed ha accettato, di fatto, che il salario minimo proposto nel 2013 sia del 15% inferiore a quanto non fosse alla fine degli anni Sessanta (al netto dell’inflazione, il salario minimo del 1968 sarebbe oggi di  10.56 dollari). Il tutto in un contesto di crescita rilevante della diseguaglianza e di distribuzione assai sperequata della ricchezza. Secondo le ultime statistiche del governo, infatti, ben il 15% degli americani (circa 46milioni di persone) vive sotto la soglia della povertà (era l’11.3% nel 2000). Tra il 2010 e il 2011, il reddito del 5% di coloro che guadagna di più è cresciuto del 5%, laddove quello del 20% che guadagna di meno è sceso circa dell’1.5%. Tra il 1980 e oggi i redditi dell’1% più ricco, al netto delle tasse, sono cresciuti del 155%, quelli del 60% di redditi mediani sono aumentati appena del 37%. La percentuale della ricchezza nazionale nelle mani del 10% più benestante è cresciuta dal 67 al 74.5% tra il 1989 e il 2013, mentre quella del 50% più povero è scesa nello stesso periodo dal 3 all’1.1%. L’indice di Gini, che misura la diseguaglianza su un asse tra 0 (massima uguaglianza) e 1 (massima diseguaglianza) ci dà oggi lo 0.45 per gli Usa (era 0.38 alla fine degli anni Sessanta) contro lo 0.27 della Germania o il 0.32 dell’Italia.

Gli esempi sono molteplici e si sprecano. L’indicazione è però chiara, le proposte di Obama in materia di salario minimo – così come altre, aspramente denunciate dalla controparte repubblicana, sul cambiamento climatico e la vendita di armi da fuoco – sono moderate e tali sarebbero state considerate solo un paio di decadi fa. Presentarle come radicali riduce ovviamente la possibilità che esse vengano adottate. Con il discorso di martedì, Obama ha cercato di alzare l’asticella e di sfruttare l’occasione: per promuovere queste riforme ovvero per creare un clima favorevole alla loro adozione, quanto meno a livello statale (lo stato di New York, ad esempio, ha appena approvato una serie di misure fortemente restrittive sulla vendita di armi da fuoco, mentre vari stati hanno negli ultimi anni aumentato il salario minimo). Ora, però, Obama dovrà trasformare le parole, moderate ma nette, in fatti e spendersi in prima persona più di quanto non abbia fatto durante il suo primo mandato.

 

Il Messaggero, 14 febbraio 2013