Mario Del Pero

Obama e la Siria

Non solo di economia si discute in questo G-8 nord-irlandese. La crisi siriana è inevitabilmente al centro della scena e, a quanto sappiamo, ha tenuto banco nei colloqui bilaterali di un irritatissimo Putin con Cameron e Obama. Con riluttanza, dopo molti tentennamenti e a dispetto della ferma opposizione di Mosca, Obama ha infine accettato di alzare la soglia dell’impegno statunitense in Siria e di fornire apertamente armi e munizioni (ma non missili terra-aria) alle forze che si oppongono al regime di Assad.  Fino a ora, il Presidente statunitense aveva scelto il basso profilo, dopo aver assistito al fallimento di una soluzione diplomatica resa impossibile dalla rigidità di Assad, dall’appoggio che la Russia continua ad offrire al dittatore siriano e dalla debolezza di una comunità internazionale divisa e distratta da altri problemi.

Vari elementi hanno concorso alla sostanziale passività degli Stati Uniti. Innanzitutto, l’opposizione di una chiara maggioranza dell’opinione pubblica statunitense a una partecipazione americana a qualsivoglia intervento nell’area (nell’ultimo sondaggio Gallup quasi il 70% degli intervistati si dichiarava contrario a un intervento militare, anche una volta esaurite tutte le altre opzioni, mentre appena il 25% lo appoggiava). Su questo pesa il secondo fattore: il retaggio, assai vivo, dell‘Afghanistan, dell’Iraq e della stessa Libia, dove gli esiti appaiono assai incerti e comunque diversi da quelli auspicati due anni orsono. Infine, hanno inciso (e incidono) sia la consapevolezza della tenuta di Assad e delle sue forze armate sia la fatica a districarsi nell’ingarbugliata matassa dei gruppi d’opposizione, e il conseguente timore di favorire inavvertitamente quelli vicini all’Islam radicale e jihadista.

Cosa è quindi cambiato, oggi, per indurre a un primo cambiamento di rotta, per quanto timido e non certo risolutivo?

Di nuovo, è dal piano politico interno che si deve partire. Negli Usa le pressioni su Obama si sono fatte vieppiù intense. Sia da parte repubblicana, dove si denuncia un’inazione inaccettabile tanto moralmente quanto strategicamente. Sia da parte democratica, con molti falchi liberal, a partire dalla stessa Hillary Clinton, inclini a presentare la questione siriana come una catastrofe umanitaria – a maggior ragione dopo le denunce sull’uso di armi chimiche da parte delle forze di Assad – che imporrebbe e giustificherebbe il ricorso alla forza così come lo imposero, in ultimo, le guerre balcaniche degli anni Novanta. Si tratta di posizioni più dell’establishment che della base e dell’elettorato democratici, ma che sono ben rappresentate anche all’interno dell’amministrazione, in figure come Susan Rice e Samantha Power, fresche di nomina rispettivamente come Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Ambasciatrice alle Nazioni Unite.

In secondo luogo, alla Casa Bianca si è ormai convinti che la guerra civile siriana sia entrata davvero in una fase decisiva. E che un intervento ora garantisca maggiori possibilità di condizionare il futuro del paese e di evitare che ad approfittarne siano attori locali (Hezbollah), regionali (l’Iran) e, ancor più, internazionali (la Russia), che nel conflitto hanno sinora svolto un ruolo ben più attivo.

E questo ci porta alla terza e ultima ragione di questa parziale svolta obamiana: il convincimento che in gioco sia ora la credibilità stessa degli Stati Uniti e della loro leadership. Con una certa miopia, Obama aveva fissato una linea, quella dell’uso di armi non convenzionali, oltre la quale la tolleranza degli Stati Uniti sarebbe terminata. Ma la questione è più ampia di una dichiarazione improvvida e facilmente strumentalizzabile.  Rimanda all’esercizio della leadership, appunto, che il soggetto egemone del sistema internazionale deve poter dimostrare pena una riduzione della medesima egemonia. In Siria gli Stati Uniti ritengono di non poter accettare un esito sfavorevole anche per i riverberi simbolici globali che ne conseguirebbero. Non può, Obama, però nemmeno promuovere un intervento deciso e risolutivo: per la complessità della situazione sul campo e perché il paese non è disposto ad appoggiarla. Con cautela, quindi, si alza la soglia dell’intervento e si rischia una seria crisi diplomatica con la Russia. Anche se la storia mostra bene come un’escalation, una volta avviata, è difficile tanto da invertire quanto da controllare e può in ultimo danneggiare proprio quella credibilità che s’intende preservare.

Il Messaggero, 18 giugno 2013