Mario Del Pero

Obama e il nuovo patto con la classe media

Un discorso per offrire all’America una “visione” e un “piano” per il futuro. E per riportare i temi dell’economia e del lavoro al centro del dibattito politico e della discussione pubblica. A questo doveva servire l’intervento di ieri di Barack Obama al Knox College, nel suo stato dell’Illinois. Come spesso in passato, il discorso ha aperto un’estate nella quale Obama cercherà di usare la vacanza congressuale per riconquistare la scena e appellarsi direttamente all’opinione pubblica, sfruttando il malumore nei confronti di una politica litigiosa, paralizzata e incapace di agire; di una Washington ormai sempre più scollegata dal paese reale.

Perché, però, tanta enfasi su questo discorso? Tanto impegno per prepararne il lancio e amplificarne il significato?

È chiaro che pesano, e molto, le attuali difficoltà politiche del Presidente. A dispetto delle previsioni, Obama non è riuscito a capitalizzare la larga vittoria del novembre scorso. Le sue proposte in materia di vendita di armi da fuoco, lotta al cambiamento climatico e, oggi, immigrazione tendono invariabilmente ad arenarsi sulle secche dell’ideologico ostruzionismo della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti. Gli scandali sull’operato delle agenzie d’intelligence lo hanno indebolito in patria e, ancor più, all’estero, inclusa quell’Europa che lo aveva sino ad ora sostenuto entusiasticamente e, spesso, acriticamente. Negli Usa, il tasso di approvazione per il suo operato non supera il 45%, 5 punti percentuali sotto quello di disapprovazione.

Vi è, però, anche un preciso calcolo elettorale da parte del Presidente e del suo staff. Alla Casa Bianca si è convinti che la cultura economica egemone dell’ultimo quarantennio, centrata sul binomio deregulation/tagli alle tasse, sia giunta davvero al capolinea; che essa sia stata definitivamente screditata dall’ultima crisi e rigettata da una maggioranza degli americani. L’irritazione verso un mondo finanziario e bancario tornato a fare profitti simili al pre-2007, le insostenibili diseguaglianze, la stessa sconfitta di Romney – simbolo e incarnazione estrema di quella cultura – sarebbero lì a dimostrarlo. Parlare di economia, e farlo con i toni appassionati e duri usati ieri da Obama, serve per intercettare questa presunta trasformazione culturale e il malcontento che essa genera. E serve, nelle intenzioni, per sfruttarli elettoralmente. Tra poco più di un anno saranno rieletti un terzo del Senato e l’intera camera bassa; la lunga campagna per il voto di mid-term del novembre 2014 è pertanto già cominciata e con questo discorso Obama stesso è sceso nella contesa. È la sua chance per avere una maggioranza democratica al Congresso, così come avvenne nel primo biennio presidenziale (2009-2011); l’ultima opportunità per sbloccare la paralisi legislativa conseguente al governo diviso degli ultimi due anni e mezzo.

Infine, Obama parla – e lo fa con toni tanto alti quanto spesso generici – anche perché già proiettato oltre la sua presidenza. Di nuovo, si tratta di una dinamica che caratterizza i secondi mandati presidenziali. Nei quali, il Presidente cerca di definire quale sarà il suo lascito: usa il pulpito presidenziale per costruire e far sedimentare una precisa narrazione, sul suo operato e i suoi successi. Non a caso, ieri Obama ha ricordato con orgoglio alcuni dei principali successi del suo primo mandato: il salvataggio dell’industria automobilistica, la riforma sanitaria, gl’investimenti in infrastrutture e ricerca, la ritrovata autosufficienza energetica. Si tratta però di una narrazione oggi incompleta, parziale e facilmente contestabile. Che necessità davvero di seri successi politici nei tre anni a venire per poter diventare credibile e convincente.

Il Messaggero, 25 luglio 2013