Mario Del Pero

Il doppio consenso che manca a Obama

Gli Stati Uniti rimangono, a dispetto di tutto, il soggetto più importante del sistema internazionale. L’egemone capace come nessun altro di imporre le proprie posizioni, proiettare globalmente la propria potenza, condizionare le regole di tale sistema e dominare le istituzioni che lo governano. Ogni qualvolta parla, il presidente degli Stati Uniti lo fa quindi di fronte a due opinioni pubbliche – interna e internazionale – con l’obiettivo, se non la necessità, di ottenerne l’appoggio e il consenso.

“Non sono stato io a imporre una linea rossa”, ha affermato ieri Obama in riferimento alla sua affermazione di alcuni mesi orsono, che definiva appunto una soglia intollerabile, una “linea rossa – l’uso di armi chimiche da parte delle forze di Assad – oltre la quale sarebbe scattata la reazione militare. “Il mondo ha fissato una linea rossa”, ha proseguito il presidente: “non è la mia credibilità a essere in gioco. È quella della comunità internazionale, dell’America e del Congresso”.

L’affermazione è inesatta. Quella “linea rossa” l’aveva improvvidamente definita proprio il presidente , nel tentativo di esprimere risolutezza ed evitare al contempo un intervento. Il discorso di Obama ci mostra però la complessa situazione nella quale si trova l’amministrazione statunitense e il riaffermarsi, anche in questa crisi siriana, di un dilemma che ha spesso segnato l’azione internazionale degli Usa: la difficoltà di rendere complementari due consensi, interno e internazionale, di cui gli Stati Uniti abbisognano per promuovere una politica estera attiva, interventista ed efficace.

Anche in questa crisi, Obama fronteggia infatti un doppio fronte, dentro e fuori gli Stati Uniti. Ha bisogno dell’appoggio della sua opinione pubblica e, ora, anche del Congresso, cui ha deciso con procedura costituzionalmente corretta, ancorché sorprendente, di chiedere l’autorizzazione all’azione. Ma ha bisogno anche del consenso del resto del mondo, a partire ovviamente da quello dai membri permanenti del consiglio di Sicurezza dell’Onu e della Russia in particolare.

Con mossa politicamente più abile di quanto non si fosse inizialmente compreso, Obama ha rimandato la questione al voto del Senato e della Camera dei Rappresentanti. Facendolo ha guadagnato tempo e, soprattutto, impedito ai repubblicani di capitalizzare politicamente sulla crisi, rendendoli corresponsabili della sua gestione e della risposta che gli Usa vi daranno. Se ci sarà una guerra, non sarà “la guerra di Obama”: sarà invece una guerra dell’America o, stante la persistente avversione all’intervento di una maggioranza degli americani, la guerra di Washington e dei suoi politici tutti, senza distinzione di parte. Al Senato Obama ha costruito una maggioranza che appare solida. Alla Camera il quadro rimane più incerto, anche perché l’asse anti-interventista tra sinistra democratica e destra libertaria è più forte. Ma è difficile immaginare una sconfitta di Obama.

Che però non ha visto la sua posizione rafforzata fuori dai confini statunitensi. Se il problema, come spesso si va affermando in questi giorni, è primariamente di credibilità, questa non è stata di certo aiutata dall’ondivago atteggiamento del presidente e men che meno dalla decisione di chiedere l’autorizzazione del Congresso. Al resto del mondo Obama ha comunicato confusione e debolezza al meglio, inconsistenza e opportunismo al peggio. È apparso in balia di forze interne alla sua amministrazione e al suo partito, che ha dimostrato di non saper governare e tenere a freno. E si è ritrovato come unico partner un Hollande che, in Francia, si trova a livelli minimi di popolarità. Ha ottenuto, quello sì, un po’ di tempo. Per provare a rilanciare la macchina della diplomazia non ufficiale, negli incontri ai margini del G-20 che inizia oggi a San Pietroburgo così come nelle frenetiche consultazioni con tutti i soggetti interessati, incluso quasi certamente lo stesso Iran. Per provare a risolvere un’impasse dalla quale si fatica oggi a intravedere una via d’uscita.

 

Il Messaggero, 5 settembre 2013

3 Commenti

  1. Alberto

    Gentile prof. Del Pero,
    in un fondo, pubblicato su il Sole 24 ore di oggi, Vittorio Emanuele Parsi esaminando la scelta di Obama in Siria pone in evidenza l’influenza, a suo avviso decisiva, di Susan Rice. Mi piacerebbe conoscere la Sua opinione in merito.
    La ringrazio dell’attenzione.

  2. Mario Del Pero (Autore Post)

    Se ci va bene, noi storici potremo leggere le discussioni tra Obama e i suoi consglieri tra 30/40 anni. Che la Rice sia una liberal interventista a tutto tondo e che abbia molta influenza sul Presidente (che senza la vicenda di Benghazi l’avrebbe nominata segretario di Stato), lo sappiamo bene. Poi agiscono dinamiche che sono anche politiche, penso al ruolo dei due Clinton, o legate agli equilibri interni all’amministrazione, dove mi sembra che Hagel sia stato messo in chiara minoranza

  3. Alberto

    La ringrazio.

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