Mario Del Pero

Obama, la costituzione e la guerra

La costituzione degli Stati Uniti in teoria non lascia adito a dubbi: tra le attribuzioni esplicitamente attribuite al Congresso vi è anche quella di “dichiarare guerra, concedere licenze di preda e di rappresaglia, e stabilire regole sulle prede in terra e in mare” (art.1, sezione VIII). Le forme di tale dichiarazione – se con voto a camera unificate o con singole votazioni delle due camere – non sono specificate. Che la competenza sia stata assegnata all’organo legislativo, e i padri costituenti lo abbiano fatto deliberatamente per evitare un’eccessiva concentrazione di poteri nella Presidenza, è però fuor di dubbio. Eppure, dei tanti interventi militari intrapresi dagli Stati Uniti nella loro storia solamente cinque sono stati autorizzati così come previsto dalla costituzione: le guerre con la Gran Bretagna del 1812-14, il Messico del 1846-48, la Spagna del 1898 e i due conflitti mondiali. Tante altre guerre sono state promosse senza il voto del Congresso o in conseguenza di sue semplici autorizzazioni, spesso vaghe e ampie, alla possibilità di ricorrere alla forza per tutelare la sicurezza del paese o far rispettare risoluzioni dell’Onu (è il caso, questo, del Vietnam nel 1964 e più recentemente dell’Iraq nel 2002).

Al crescere della potenza e dell’influenza degli Stati Uniti è infatti corrisposta la crescita del potere e delle prerogative, esplicite ed implicite, del loro presidente. Che appellandosi ai precedenti, agli imperativi di sicurezza e al suo ruolo, per altro definito in modo molto generico e controverso, di “Comandante in Capo” delle Forze Armate, si è spesso arrogato il diritto di portare il paese in guerra senza seguire il dettame costituzionale. Storici e costituzionalisti hanno quasi sempre denunciato questa forzatura della norma e sollecitato i presidenti a rispettare la costituzione o seguire i vincoli posti da leggi successive, su tutte la War Powers Resolution del 1973 che impone al presidente di ottenere l’autorizzazione del Congresso entro 90 giorni dall’inizio di un conflitto. In tal senso si pronunciò qualche anno fa anche un giovane ex docente di diritto costituzionale, dal nome esotico e prossimo a diventare presidente: Barack Hussein Obama. Che nel 2007 sottolineò come “fosse sempre preferibile avere il consenso informato del Congresso prima di intraprendere una qualsiasi azione militare”.

Da presidente, Obama ha disatteso queste sue posizioni. Non ha resistito alla tentazione dell’ufficio presidenziale; come molti altri prima di lui, ha interpretato in modo estensivo il suo ruolo di “Comandante in Capo”; e ha portato il paese in guerra, ad esempio nell’azione contro la Libia di Gheddafi, senza chiedere l’autorizzazione del Congresso.

Ora, però, Obama ha deciso di posticipare il previsto attacco alla Siria e di vincolarlo al voto favorevole del Congresso. Dietro questo improvviso ritorno alla costituzione, vi è, va da sé, un calcolo primariamente politico. Obama sa bene che una chiara maggioranza del paese è contraria all’intervento. E sa che il voto della Camera dei Comuni e la conseguente defezione britannica ha isolato ancor più gli Stati Uniti. Rinviare l’intervento di qualche giorno e chiedere il voto del Congresso serve quindi per raggiungere diversi obiettivi. Permette di guadagnar tempo, in funzione di nuove iniziative diplomatiche nei giorni a venire. Aiuta temporaneamente Obama a uscire dal cul-de-sac in cui si era improvvidamente cacciato. Più di tutto, rende i repubblicani, i cui principali esponenti hanno esplicitamente chiesto l’intervento, corresponsabili di una scelta potenzialmente impopolare, impedendo loro di capitalizzare politicamente su tale impopolarità. Certo, è una decisione che non giova all’immagine e alla credibilità di Obama: che agli occhi di molti, appare ormai leader titubante, indeciso e incapace di contenere le pressioni di chi, soprattutto dentro la sua amministrazione e il suo partito, ha sollecitato l’opzione militare. Almeno su questo, però, l’Obama studioso e l’Obama capo di stato sono tornati temporaneamente a pensarla allo stesso modo.

 

Il Giornale di Brescia, 2 settembre 2013