Mario Del Pero

Sullo strano asse franco-statunitense

Con una decisione invero sorprendente, Obama ha deciso di seguire quel dettame costituzionale spesso ignorato in passato e di chiedere il voto del Congresso prima di intraprendere un’azione militare contro la Siria di Assad. Un’azione, questa, che il Presidente ritiene però necessaria e inevitabile . Con una decisione che gli era spesso mancata in passato, Obama ha infatti mostrato di non aver alcun dubbio sul fatto che il regime siriano abbia usato armi chimiche nel recente massacro di Damasco. La credibilità degli Stati Uniti, ha affermato il presidente, è ormai in gioco: “Che messaggio daremo”, ha chiesto retoricamente, “se un dittatore può uccidere impunemente col gas migliaia di bambini?”.

È difficile immaginare un voto negativo del Congresso. Molti repubblicani appoggiano l’intervento e ne condividono le motivazioni ideali e gli assunti strategici di fondo. La roboante retorica nazionalista dispiegata dal Presidente serve però a rafforzare l’idea che gli Usa siano chiamati a una missione, l’ennesima, e che divisioni e spirito di parte debbano essere messi da parte.

Una missione nella quale si trovano però quasi soli, dopo la sorprendente defezione britannica. Ovvero si trovano con un alleato che solo poco tempo fa sarebbe apparso del tutto improbabile: la Francia del socialista Hollande. Undici anni orsono, di questi tempi, Francia e Stati Uniti si scornavano sull’Iraq e sulla opportunità, e legalità, di un intervento atto a rovesciare il regime di Saddam Hussein. Francofobia e anti-americanismo dilagavano nei due paesi e tra le rispettive opinioni pubbliche. Il ristorante del Congresso, e molti altri con esso, modificava il nome delle patatine fritte, che da “French Fries” (letteralmente “fritti francesi”), come sono chiamate negli Usa, diventavano “Freedom Fries”, le “patatine della libertà”. John Kerry, candidato presidenziale del 2004, doveva nascondere la sua perfetta conoscenza del francese, per il timore che ciò lo danneggiasse alle urne. In Francia, scalavano la lista dei best-seller libri che sostenevano la tesi secondo la quale gli attentati dell’11 settembre erano un’invenzione e nessun aereo fosse mai caduto sul Pentagono.

È un connubio di ideologia e geopolitica, ideali e ambizioni (e velleità) di potenza, pressioni politiche interne e calcoli elettorali quello che determina questa strana asse Washington-Parigi. Il cemento discorsivo è rappresentato dai diritti umani, che fece irruzione nella politica internazionale negli anni Settanta, anche allora attraverso uno strano, e sincretico, dialogo tra parte della sinistra eretica francese e neoconservatori democratici statunitensi. È una logica, quella dei diritti umani, che ha finito per scardinare categorie care all’internazionalismo della sinistra, su tutte il principio di autodeterminazione dei popoli e il conseguente rispetto della piena sovranità degli stati all’interno dei loro confini. Con la fine della guerra fredda, e con contraddizioni e corto-circuiti di non poco conto, la difesa dei diritti umani ha determinato una progressiva rilegittimazione della guerra e, di nuovo, offerto un comune denominatore a nuovi democratici statunitensi e sinistra liberal europea. Il momento culminante di quella stagione fu quella guerra del Kosovo costantemente invocata in questi giorni, condotta con Clinton alla Casa Bianca e D’Alema, Jospin, Blair e Schroeder a guidare i governi d’Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania.

Questo nuovo internazionalismo umanitario non basta, da solo, a spiegare la convergenza franco-statunitense. Vi sono, ovviamente, tangibili interessi di potenza ovvero precise, ancorché non sempre realistiche, declinazioni dell’interesse nazionale. Agiscono le tradizionali ambizioni mediorientali della Francia e un senso di grandeur ora acuito dal ruolo acquisito nella crisi. E vi è l’ambizione statunitense di indebolire l’Iran ed Hezbollah, colpendo di riflesso anche la Russia.

Come sempre, in democrazia, operano infine calcoli politici e considerazioni elettorali, particolarmente visibili nel caso di Hollande, in pesante calo di consensi, ma presenti anche per Obama, che di fronte a un’opinione pubblica perplessa, se non critica, cerca di rendere il Congresso e i suoi avversari corresponsabili di una scelta a oggi impopolare e politicamente azzardata.

Le contraddizioni sono tante, a maggior ragione laddove si cerca di imporre un linguaggio eticamente binario come quello dei diritti umani alla complessa e sfuggente ambiguità delle relazioni internazionali e a una situazione intricata e caotica come quella siriana. E la coerenza di un internazionalismo che si muove in nome della violazione delle convenzioni internazionali provocata dall’uso di armi chimiche cessa laddove si viola il diritto e si agisce in assenza di una risoluzione dell’Onu. Per intanto, però, Francia e Stati Uniti si trovano dalla stessa parte. Se ce lo avessero detto dieci anni fa pochi di noi voi avrebbero creduto.

Il Messaggero, 1 settembre 2013

3 Commenti

  1. Andrea Fumarola

    Credo che la decisione di Obama rappresenti un importante cambio di direzione in campo militare-internazionale per quello stile di presidenza che aveva fatto parlare Bruce Ackerman di “decline and fall” della Repubblica statunitense.

  2. Mario Del Pero (Autore Post)

    Caro Andrea, scusami ma il tuo commento mi era sfuggito. Temo di dissentire. Mi pare legato piu’ alle contingenze, e a considerazioni di ordine politico, che a rinnovate sensibilita’ costituzionali.

  3. Andrea Fumarola

    Forse Prof è anche “effetto collaterale” – dipende dai punti di vista – del sistema di contrappesi proprio del divided government americano; sistema che da tre anni a questa parte, a causa dell’aggressività politica dei repubblicani, ha visto limitare sempre più la libertà d’iniziativa del presidente. Quindi sicuramente – e prevalentemente – contingenti, ma anche, in piccola parte, strutturali.

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