Mario Del Pero

Egemonie, interdipendenze e irresponsabilità

Un compromesso è stato raggiunto. Falliti diversi piani dei repubblicani alla Camera, la palla è infine tornata al Senato, dove le due parti si sono accordate per alzare il tetto del debito pubblico fino al febbraio prossimo e per finanziare le attività governative sino al 15 gennaio 2014. Contestualmente, si dovrà produrre entro metà dicembre un preciso piano di bilancio per il decennio venturo.

Si tratta di misure tampone, che risolvono temporaneamente una crisi dai riverberi potenzialmente drammatici e globali, ma che lasciano irrisolti molti dei nodi che l’avevano causata. Si tratta, però, anche di una devastante sconfitta politica per il partito repubblicano, in balia delle sue frange più radicali, privo di leadership e mosso da logiche quasi eversive nel suo tentativo di abbinare questioni del tutto scollegate – bilancio e aumento del tetto del debito – alla cancellazione o revisione di una legge, la riforma sanitaria, approvata ormai tre anni orsono e confermata da una successiva decisione della Corte Suprema.

Molti dei protagonisti di questa crisi hanno operato come se gli Stati Uniti si trovassero entro una bolla. Come se un eventuale default americano non avesse ripercussioni ben più ampie. Come se gli Stati Uniti non fossero legati al resto del mondo da una rete di interdipendenze tanto profonde e ineludibili quanto complesse e delicate.

La vicenda è infatti rivelatrice delle fragilità strutturali di un sistema internazionale ancora imperniato sulla centralità, e invero sull’egemonia, degli Stati Uniti. Un’egemonia di per sé contraddittoria e complessa che, come hanno rivelato queste ultime settimane, può trovarsi appesa a decisioni di parlamentari impreparati, straordinariamente ideologici e inevitabilmente poco responsabili.

Il dollaro è il perno e il medium fondamentale di questa egemonia. Rimane la valuta dominante, a dispetto delle illusioni suscitate inizialmente dall’introduzione dell’euro, e quella utilizzata nelle transazioni internazionali; denomina titoli, quelli del Tesoro statunitense, che costituiscono l’investimento primario di soggetti statuali e non; alimenta la capacità di consumo americana fondata su un debito, pubblico e privato, permesso e sussidiato da tali investimenti, ma indispensabile per la crescita mondiale.

Veniamo da almeno un decennio di rinnovato discorso “declinista’, negli Usa e non solo: da una discussione intellettuale e politica centrata sull’idea che gli Stati Uniti siano in declino e la loro egemonia sia giunta al capolinea. Le fragilità e contraddizioni di tale egemonia, appunto, sono tali che è difficile immaginare una capacità del sistema di tollerarle a lungo ovvero una disponibilità degli altri soggetti, a partire dalla Cina, ad accettarle e anzi permetterle. Eppure, a dispetto di debito crescente e di deficit strutturali della bilancia delle partite correnti, i tassi rimangono bassissimi, gli Usa continuano ad attrarre capitali, il loro sistema industriale si è fatto più competitivo, possibili alternative al dollaro non sembrano esistere. Nel mentre, la capacità di proiezione della potenza militare statunitense rimane impareggiabile,  nonostante le tante débâcle dell’ultimo decennio.

La crisi di queste ultime settimane inserisce però un’ulteriore, potente variabile nella discussione sul possibile declino statunitense; aggiunge una freccia all’arco di chi ne asserisce la inevitabilità. Questa variabile è l’acclarata disfunzionalità del sistema politico degli Stati Uniti.

La tensione tra la quotidianità di una politica (politics) litigiosa, conflittuale e polarizzata e le esigenze di una azione di governo (policy) coerente e globale ha scandito tante fasi della storia degli Usa, della loro azione internazionale e della ascesa della loro potenza. Così come l’ha scandita la dialettica tra Congresso ed Esecutivo, tra un’opinione pubblica riluttante a sostenere politiche estere attive e globali ed élite invece internazionaliste e interventiste. Eppure questa tensione e questa dialettica sembrano avere raggiunto oggi un livello nuovo e senza precedenti, con una fazione minoritaria di un partito di minoranza, che controlla uno dei due rami del Congresso, disposta a prendere in ostaggio il paese e, in una certa misura, il resto del mondo pur di raggiungere il suo scopo. Pronta anche ad accettare un default e una nuova recessione, i cui effetti negativi sull’economia globale sono difficili tanto da immaginare quanto da sottovalutare.  Pronta a minare autolesionisticamente l’egemonia del proprio paese, pur di riaffermare la propria purezza ideologica, preservare il proprio seggio al Congresso o, più banalmente, poter trascorrere qualche ora sotto la luce dei riflettori.

Il Messaggero, 17 ottobre 2013