Mario Del Pero

La nuova crisi del debito

Sono trascorsi ormai cinque giorni dalla mancata approvazione della legge di bilancio e la conseguente sospensione da parte del governo degli Stati Uniti di una serie di servizi, con la messa in congedo non retribuito di quasi un milione di dipendenti federali. I repubblicani, che controllano la camera dei rappresentanti, sembrano avere superato lo smarrimento dei giorni scorsi e irrigidito ulteriormente le loro posizioni: il bilancio, sottolineano, non sarà approvato in assenza di contestuali modifiche alla riforma sanitaria approvata nel 2010, il più importante successo legislativo di Obama.

Ma la partita si sta spostando ora su un’altra questione, che già paralizzò il paese nel 2011: l’aumento da parte del Congresso del tetto del debito pubblico da approvarsi entro il 17 ottobre. Dovrebbe essere un provvedimento quasi automatico, necessario per coprire impegni già assunti: per garantire al Tesoro le risorse con cui far fronte a spese autorizzate dal Congresso e per le quali non è sufficiente il gettito del corrente anno fiscale. In altre parole, si chiede al Congresso di assicurare la copertura di impegni di spesa già approvati. Di qui l’automatismo logico tra questi e il successivo aumento del tetto del debito. Nell’approvazione del quale, però, i repubblicani – ovvero la loro fazione più radicale e aggressiva – hanno individuato un’ulteriore arma politica, da utilizzarsi per imporre a Obama quei tagli e, eventualmente, quelle modifiche alla riforma sanitaria che il Presidente non è disposto a considerare.

Le conseguenze di un mancato aumento del tetto del debito pubblico sono difficili da prevedere. Verrebbe meno la copertura di circa il 30/35% delle spese già previste. Impossibilitato ad adempiere ai propri impegni, il Tesoro dovrebbe definire una scala di priorità e, nel caso, continuare a pagare i possessori dei suoi titoli, concentrandosi in un primo momento su tagli a pensioni, spesa militare, sanità e welfare, anche se le complicazioni pratiche di una scelta di questo tipo – che dovrebbe selezionare tra milioni di pagamenti mensili automatici – sono immense. L’impatto economico sarebbe comunque immediato e potenzialmente devastante (un calo netto del 4/5% del Pil, secondo alcune stime).

Se  la crisi si prolungasse, e la “prioritarizzazione” dei tagli non fosse materialmente o politicamente praticabile, allora il rischio del default si farebbe più concreto. I riverberi globali risulterebbero tanto inevitabili quanto drammatici: drastico indebolimento del dollaro; crisi d’istituzioni finanziarie e banche i cui portafogli (e riserve) sono ricchi di dollari e bonds del Tesoro statunitense; contrazione ulteriore di un’economia globale che dagli Usa – dai loro consumi, dalla loro valuta e dal loro debito – in ultimo dipende.

È uno scenario fin troppo apocalittico per essere considerato possibile. Forse anche per questo la reazione dei mercati è stata finora cauta, con un dollaro che si è un po’ indebolito, con lo spread dei titoli statunitensi sostanzialmente stabile rispetto a quello dei bund tedeschi e con tassi d’interesse quindi ancora straordinariamente bassi, a dimostrazione di come l’egemonia mondiale degli Usa sia stata finora capace di resistere a un sistema politico interno sempre più irrazionale e disfunzionale. Probabilmente tutti considerano il rischio troppo grande per essere corso: pensano che un compromesso sarà infine trovato; o che Obama, con una dimostrazione di fermezza e spregiudicatezza che gli mancò nel 2011, forzerà la mano e approverà l’aumento del tetto del debito in assenza di autorizzazione congressuale, appellandosi al quattordicesimo emendamento della Costituzione (il quale afferma che non si può porre “in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge”). Si tratterebbe di una chiara forzatura del testo costituzionale e di un atto di “presidenza imperiale”:  stiamo infatti parlando di un emendamento del 1868, introdotto per garantire il pagamento dei debiti dell’Unione durante la guerra civile. Che però molti considerano necessario, a partire da Bill Clinton che lo suggerì nell’analoga crisi di due anni fa. Laddove Obama optasse per una scelta di questo tipo si aprirebbe una querelle costituzionale sulla quale la parola ultima spetterebbe, tra qualche tempo, alla Corte Suprema. Ma si uscirebbe quantomeno da un’impasse alla quale l’America, e con essa anche il resto del mondo, osservano oggi con sconcerto e preoccupazione.

Il Messaggero, 8 ottobre 2013