Mario Del Pero

Spionaggio, silenzi e debolezze

Vari fattori hanno contribuito alla monumentale azione di spionaggio condotta nell’ultimo decennio dalle agenzie d’intelligence statunitensi e in particolare dalla National Security Agency (NSA), la struttura responsabile per le comunicazioni. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il potere della Presidenza si è largamente ampliato, laddove il Congresso ha abdicato a molte delle sue responsabilità di monitoraggio, controllo e supervisione. La campagna globale contro il terrorismo ha legittimato a sua volta forme estremamente capillari e intrusive di controllo delle informazioni e delle comunicazioni, dentro e fuori gli Stati Uniti. Infine, le radicali trasformazioni tecnologiche hanno moltiplicato forme e quantità di tali comunicazioni, imponendo alle strutture d’intelligence un’azione più ampia ed estesa, ma offrendo alle stesse strumenti nuovi e straordinariamente potenti.

Un’operazione d’intelligence così vasta, invasiva e spregiudicata non poteva che scatenare reazioni critiche e finanche indignate, negli Usa e nel resto del mondo. Lo stato d’eccezione che l’aveva permessa e giustificata era tollerabile per un periodo di tempo circoscritto e limitato. Il simultaneo, e contraddittorio, processo di privatizzazione di molte funzioni della politica di sicurezza degli Stati Uniti ha fatto sì che un numero crescente di persone fosse coinvolto nell’operazione, ne conoscesse i segreti e potesse rivelarli, come infine accaduto con Edward Snowden. Infine, le vittime dello spionaggio statunitense – governi, apparati statuali e, ora sappiamo, anche semplici e ignari cittadini – avrebbero prima o poi protestato.

È quanto sta avvenendo oggi, dopo l’ultima, sconcertante serie di rivelazioni sulle intercettazioni da parte della NSA di un numero impressionante di comunicazioni telefoniche in Europa, che pare abbiano preso di mira lo stesso cellulare di Angela Merkel (secondo un’inchiesta del quotidiano Le Monde, in un solo mese, tra il 2012 e il 2013, la NSA avrebbe intercettato e archiviato più di 70 milioni di scambi telefonici avvenuti in Francia). La reazione del governo di Parigi è stata aspra, con tanto di richiesta di chiarimenti all’ambasciatore statunitense e dichiarazioni inusitatamente dure da parte del ministro degli Esteri, Fabius, e dello stesso premier, Hollande. In modo analogo, altri governi avevano già preso posizione contro Washington, con gesti talora eclatanti, in particolare da parte della presidente del Brasile, Dilma Roussef, che prima ha cancellato una visita di stato negli Usa e poi, in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, ha lanciato un duro attacco contro gli Stati Uniti e le loro protratte “violazioni del diritto internazionale”.

Vi è un velo d’ipocrisia in quella che rimane però un’indignazione comprensibile e legittima. Difficile credere che gli alleati di Washington non fossero almeno in parte a conoscenza delle operazioni in atto; che non utilizzino loro stessi (con risorse e strumenti molto inferiori) metodi simili; che, soprattutto, non facciano la voce grossa anche per calcolo politico ed elettorale: per soddisfare le pulsioni di opinioni pubbliche sempre sensibili alle critiche nei confronti del gigante americano.

Come si spiega, allora, la cautela se non addirittura il basso profilo del governo italiano, ribadito nelle morigerate dichiarazioni di Enrico Letta dopo il suo incontro di ieri con il segretario di Stato John Kerry? In fondo, anche il nostro è un paese dove raramente un attacco agli Usa non suscita applausi istintivi, fragorosi e trasversali, soprattutto se condito con qualche buona dose di stereotipato anti-americanismo.

Sarebbe bello credere che sia un segno di maturità chiedere sobriamente agli Usa, come ha fatto Letta, di “verificare la veridicità delle indiscrezioni” su “eventuali violazioni della privacy”, prima di lanciarsi in facili invettive e condanne sommarie. Ahimè, la (non) reazione italiana sembra però esprimere debolezza più che senso di responsabilità. Sembra cioè rimandare a una lunga storia di subalternità il cui fattore primario è stato non tanto, e non primariamente, la comunanza di vedute e interessi, in un rapporto bilaterale inevitabilmente squilibrato a vantaggio di Washington, quanto la strutturale fragilità politica di molti governi italiani. Che hanno cercato una stampella, talvolta una vera e propria investitura di legittimità, nel rapporto con l’alleato maggiore: per contare di più sulla scena internazionale; per essere più solidi e credibili sul piano interno. Raggiungendo però raramente sia l’uno sia l’altro obiettivo.

Il Messaggero, 24 Ottobre 2013