Mario Del Pero

L’11 settembre: la sua memoria; il suo significato

Gli storici dibattono oggi l’effettivo impatto degli attentati dell’11 settembre 2001 sulle relazioni internazionali contemporanee. Se a quella data si possa assegnare un valore periodizzante. Se essa costituisca davvero una delle cesure storiche della nostra epoca.

Da più parti si sottolinea come alcune tendenze strutturali del sistema mondiale siano state solo in minima parte condizionate da quell’11 settembre. Che esse si sarebbero dispiegate anche senza l’attacco al Pentagono e alle Torri Gemelli. Cancellando il quale, nulla sarebbe cambiato rispetto all’ascesa economica e alla crescente influenza geopolitica della Cina. O al processo d’inarrestabile integrazione economica globale. O alla parallela obsolescenza dell’architettura istituzionale di un ordine internazionale costruito in un’altra epoca. O, infine, alla graduale riduzione della centralità dell’asse transatlantica in favore di quella transpacifica, e al concomitante emergere di nuove potenze non europee, India e Brasile su tutte.

Sono considerazioni non prive di validità, quelle di chi evidenzia le matrici di lungo periodo di queste dinamiche. Nondimeno, è un grave errore di analisi minimizzare l’importanza storica dell’11 settembre 2001. Questo per diversi motivi. Innanzitutto, per la sua straordinaria valenza simbolica, che lo ha reso evento mondiale come pochi altri nella sua drammatica mediaticità e nei suoi conseguenti riverberi globali. In secondo luogo, perché a essere colpita fu la potenza egemone – gli Stati Uniti – di un ordine internazionale che era (e in parte rimane) unipolare e americano-centrico. Infine, per le modalità di risposta che tale potenza scelse. Modalità che esacerbarono alcune contraddizioni dell’egemonia americana per come questa era stata ridefinita dopo la fine della Guerra Fredda. E che acuirono le asimmetrie di un ordine internazionale fondato su un egemone fragile, su equilibri di potenza mutevoli e su una rete di regole e istituzioni parziali e datate.

La risposta dell’amministrazione Bush si espresse in una combinazione – ideologicamente coerente e politicamente fallimentare – di iper-nazionalismo, unilateralismo e uso (e abuso) delle armi. Lo strumento militare fu utilizzato prima in Afghanistan e poi in Iraq con l’obiettivo non solo di colpire Al Qaeda, ma anche di avviare un processo di trasformazione geopolitica e culturale della regione mediorientale ritenuta funzionale all’erosione del consenso del radicalismo islamico. Gli esiti di questa strategia sarebbero stati ben presto sotto gli occhi di tutti. Il discorso e le pratiche della politica estera statunitense avrebbero finito per alimentare una forte ostilità nei confronti degli Usa, anche in paesi tradizionalmente amici. In Iraq si assistette a uno straordinario fallimento strategico, forse il più grande nella storia degli Stati Uniti. I conti pubblici subirono un forte deterioramento, anche in conseguenza dei costi immensi dell’interventismo unilateralista e dell’indisponibilità ad assumere i provvedimenti, dolorosi ma inevitabili, necessari per farvi fronte (quelle in Afghanistan e in Iraq furono le uniche guerre nella storia degli Stati Uniti intraprese senza aumenti delle tasse, ma anzi con una loro concomitante riduzione).

L’elezione di Obama nel 2008 mostrò sia la straordinaria vitalità degli Usa e del loro sistema politico sia la persistente forza del mito americano rivelata proprio dalla popolarità del nuovo Presidente: dalla sorta d’infatuazione globale che ne accompagnò la campagna elettorale. Gli iniziali successi politici di Obama, e la capacità di rispondere in modo incisivo alla crisi economica, sono stati però nel tempo silenziati dai tanti errori della sua amministrazione, dall’incapacità di offrire una discontinuità forte con le politiche di sicurezza di Bush e dalla paralisi legislativa provocata dal rigido ostruzionismo repubblicano. Soprattutto, è rimasto il retaggio profondo delle contraddizioni dell’egemonia statunitense e dell’impatto su di essa di quell’11 settembre che rappresenta oggi, e rappresenterà a lungo, una della fondamentali cesure storiche del età  contemporanea.

Supplemento Il Messaggero, 3 dicembre 2013

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